Esce oggi 26 febbraio la nuova avventura di uno dei più interessanti protagonisti della scena musicale italiana ed internazionale, tornato felicemente al proprio personale percorso artistico dopo l’enorme successo ottenuto negli ultimi decenni come produttore.
Con un suono innovativo maturato nel corso della lunga sperimentazione già evidente nel precedente Aham, Corrado prosegue nel suo progetto di rinnovamento della chitarra elettrica, strumento che continua a vedere troppo statico e limitato nella percezione tradizionale.
La staticità e il buio come caratteristiche più generali del mondo attuale sono il bersaglio di Interfulgent, metafora e auspicio della luce necessaria per uscire da un panorama globale che si è fatta ancora più critico in questi ultimi mesi.
Approfondiremo ancora di più questo lato nella seconda parte dell’intervista, di prossima pubblicazione.
La ricerca di Corrado Rustici prende forma nell’album in termini compositivi e sonori, in una decina di brani in cui è la sola chitarra a cantare, con una voce personalissima e spesso struggente, frutto della sperimentazione ormai sul punto di essere condivisa nella forma di un pedale e un’elettrica di produzione tutta italiana.
Nell’album robuste galoppate chitarristiche si intrecciano tra armonie sofisticate e spesso complesse, alternando avveniristici echi intergalattici a delicatissimi episodi in dinamico equilibrio fra melodia e sonorità elettroniche, tenui atmosfere e potenti sferzate sonore.
Il carattere profondamente liberatorio di Interfulgent è evidente nella spregiudicatezza con cui Corrado si mette in gioco ad ogni livello, portando il suo strumento a livelli di altissima espressività e creando momenti musicali di grande impatto.
Il musicista napoletano gioca come sempre in casa componendo e suonando tutto, chitarre e tastiere, con il solo aiuto esterno del musicista siciliano Alex Argento, che aggiunge delle parti di piano e altre tastiere varie.
Nelle note appare spesso una Sophia-guitar che merita un approfondimento.
Corrado si collega da Berlino, dove si è trasferito dallo scorso anno, lasciando la California che lo ha ospitato per lungo tempo. La sua vita non è cambiata molto nell’era dei lockdown e continua a svolgersi prevalentemente in una stanza che è pieno di trofei discografici che riportano alle tante produzioni che ne hanno fatto negli ultimi decenni un protagonista di spicco della musica italiana.
Ai suoi lati, però, si notano due oggetti significativi, un SynthAxe, strumento ancora avveniristico a 40 anni dall’invenzione, e il prototipo della sua nuova chitarra signature, annunciata per l’immediato futuro. Il figlio continua a cercare di distrarlo dalla finestra giocando nella neve…
Una delle conseguenze di questa difficile epoca pandemica è la diffusione a livello capillare dell’uso di software specializzati per la comunicazione in video. È il mezzo che usiamo – a scapito di qualche interruzione tecnica – per parlare del nuovo lavoro in uscita fra un paio di settimane. Gli chiedo come mai ha lasciato la California dopo tanti anni…
Tira una brutta aria negli USA, non volevo assolutamente far crescere i miei figli in quel clima. Per ora sono qui a Berlino, poi vedremo. Sono molto contento di essere qua, una città fantastica, penso sia il centro musicale europeo… sono qui da Luglio ma non abbiamo visto tanto, sono sempre chiuso a lavorare…
Riascoltando Aham, lo sentivo molto lirico, cantabile (e cantato), con tutta quella ricerca sul suono e sull’orchestrazione, meno centrato sullo strumento di questo, che risulta forse ancor più chitarristico, con una diversa energia…
Beh, Aham è stato un’esperienza particolare, una ricerca sulle possibilità di produrre ogni tipo di suono con la chitarra. Da quel lavoro sono venuti fuori dei temi molto interessanti, come il fatto di continuare con un certo tipo di suono che ho sviluppato ed è diventato un pedale che ho usato molto in questo album… stavolta non ho avuto la necessità di cantare con la voce perché lo potevo fare con la chitarra. Quella cosa mi ha liberato tantissimo da schemi chitarristici di cui ero già stanco.
Questo suono, ora perfezionato e che forse vedrà la luce come pedale nel corso dell’anno, mi ha dato la possibilità di usare la chitarra in un modo forse ancora più lirico di Aham, l’approccio ai soli… io ho sempre avuto il rigetto per (mima con la bocca un fraseggio frenetico), cerco sempre di vederli come una canzone all’interno della canzone o comunque una ragione per la quale ci siano dei momenti più tecnici, se vogliamo chiamarli così.
Al di là di brani un po’ movimentati, anzi, in cui ho usato anche percussioni elettroniche per sperimentare sonorità diverse da quanto succede comunemente nel mondo chitarristico, ci sono momenti ancora più lirici di Aham, brani come “Anna”, “G. on a sunny day” o “Khetwadi Lane” che è quasi musica classica… all’interno però di un contesto più d’impatto…
Lo sforzo era quello di fare un album che fosse prima di tutto basato sulla composizione, non semplicemente chitarristico, poi… siccome suono la chitarra quello è lo strumento attraverso cui mi esprimo, anche se quasi tutto è stato composto sul piano o sulle tastiere a parte quello dedicato ad Allan (Holdsworth, “The man from Yorkshire”) che è nato sulla chitarra.
Quindi, ho sentito il bisogno di usare sonorità moderne, più contemporanee, cosa difficile da fare perché non c’è un punto di riferimento, che io sappia, un album in cui la chitarra è immersa in questo mondo fatto di elettronica, ritmi e sonorità moderne. Gli album di chitarra in genere sono “vecchi”, sono sonorità che conosciamo già da trent’anni.
Questa era la premessa e non è stato facile. Quelle sonorità del mondo pop o, in qualche modo, urbano funzionano perché non c’è nient’altro che li sfida, ma quando cominci ad avere stratificazioni armoniche, ritmiche con progressioni che devono avere la loro importanza e non solo due-tre accordi che si ripetono all’infinito… lì c’è stata un po’ di ricerca e ho fatto diventar matto Sabino Cannone che ha mixato l’album, però alla fine sono contento – per quanto possa essere contento io dopo aver finito un album (ridacchia) – di quello che è venuto fuori.
Avevi qualche riferimento nella ricerca di queste sonorità?
No, no… anche perché a me non piace la musica popolare del giorno d’oggi, la trovo molto il risultato di un giovane ambizioso al computer che si mette a lavorare con una cantante che vorrebbe essere celebre. La musica di oggi è quella lì, no? Intrattenimento, non più arte.
Sono immerso nella musica moderna, specialmente qui a Berlino dove c’è un underground di musica elettronica… anche jazz, tantissimo, musica strumentale, ma molto underground, non pop.
Anche nelle radio… ne sono rimasto molto piacevolmente colpito e volevo piantare un palo anche per quanto riguarda la chitarra elettrica in quel mondo là, senza rifarmi a cose già sentite ma lasciando che quel suono potesse trasparire negli arrangiamenti.
Parliamo di suoni. Dicci di più del pedale Sophia che stai sviluppando con DV Mark.
È un pedale che uso da un paio d’anni come software nel Multiamp DV Mark ed è nato da Aham, dove avevo trovato questo suono con vari pedali e pedalini e mi piaceva. Io sono un grande sassofonista frustrato, vorrei che la chitarra – che è l’opposto perché è uno strumento percussivo – avesse quel tipo di espressione. Negli anni mi sono depurato, ho cercato di ripulire il modo in cui suonavo, passando dalla pennata continua a un uso maggiore del legato, proprio perché sentivo il bisogno di esprimere di più, di dare alla chitarra un suono che si avvicinasse di più alla voce e al sassofono.
Con Aham trovai questa soluzione e ne parlai con Marco De Virgiliis (fondatore e boss di Mark Bass/DV Mark) e lui mi propose di fare degli esperimenti. Così ho lavorato per un po’ con Thomas Serafini di Overloud, dando loro delle indicazioni, ed è venuto fuori questo suono che… mi ha fatto impazzire! Mi ha liberato da tanti schemi che ti porti sempre dietro, perché quando prendi la chitarra elettrica… distorsione, chorus, delay, amplificatore… il Marshall perché è bello, il Fender… queste cose, sai, non ne posso più di sentirle… mi sembra di ascoltare i dinosauri, proprio.
Ma in ogni caso, quando prendi la chitarra ha quel suono lì e quindi sei bloccato perché hai imparato a suonare in una certa maniera. Io ho cercato, invece, di cambiare tutto. Anche l’approccio a questo album, ma la cosa vale da Aham in poi, è stato quello di eliminare il blues afroamericano che avevo imparato da bambino con i Cream, Hendrix, sai com’è… che è la cosa più facile da fare sulla chitarra. Tu fai (imita con la voce) le quinte, la pentatonica, fai il blues e sei chitarrista.
Io, invece, dopo aver imparato che cos’era veramente il blues in America, sperimentandolo sulla mia pelle per tanti anni nei locali, in tournée, ho capito cos’è il blues, questo malessere, ho capito perché è nato quel linguaggio.
Poi ho pensato: ma il mio blues non è quello! Io sono nato in Italia, a Napoli, dove c’è un modo diverso di esprimere questo malessere. E ho ripreso la ricerca.
Questo suono mi ha liberato, mi ha dato la possibilità di esprimere il mio blues, che è europeo e che in alcuni momenti è partenopeo, anche se non sono un grande nostalgico di Napoli, ho viaggiato troppo per essere di parte. Però ho scoperto che c’era tutta una strada per dare espressione allo strumento in maniera diversa… anche con la scelta delle note.
Questo effetto è rimasto finora all’interno del mio Multiamp, ma entro qualche mese dovrebbe arrivare la versione ridotta all’interno di un pedalino (DV Mark conferma…) quanto più semplice possibile. Sarà secondo me il wah wah di oggi, darà ai chitarristi un’espressività diversa…
Da quello che si ascolta nelle parti suonate su questo album sembra agire molto sull’ammorbidire l’attacco, il suono si avvicina veramente a quello degli strumenti ad arco…
Sì, poi puoi agire sui parametri per aggiungere anche il soffio di uno strumento a fiato, se lo vuoi… infatti, il nome Sophia – se rimarrà poi questo – viene proprio da lì. Ma ci sono molte cose che succedono quando alzi o abbassi il pedale, non è solo l’attacco, c’è una serie di cose diverse che funzionano assieme in maniera diversa a seconda di come usi il pedale o tocchi la corda. Credo che piacerà molto ai chitarristi perché gli darà la possibilità proprio… di cantare!
Questa tua ricerca ci porta in territori molto vicini a quelli del tuo amico Allan Holdsworth…
Con Allan ci conoscevamo fin dagli anni ‘70, quando io mi trasferii in Inghilterra. Lui è forse uno dei più grandi chitarristi degli ultimi 100 anni, veramente ha rivoluzionato il modo di suonare lo strumento. Quello che mi ispirò di Allan era… perché io non ho mai studiato né copiato nessun chitarrista, a parte quando ero piccolino con Clapton, Hendrix, Beck, McLaughlin… che suonava in un modo non blueseggiante e… come sappiamo la chitarra ti dà la possibilità di eseguire la stessa nota in vari punti della tastiera che suonano diversamente.
Sulla chitarra la diteggiatura è quella che ti dà la libertà o al contrario ti limita nell’esprimerti, che è quello che ha acceso veramente un faro sulla possibilità di pensare diversamente lo strumento, ha ispirato anche me a farlo in modo diverso.
Poi, perché è legato, perché non suono blues, la prima cosa che viene in mente a un orecchio non addestrato è Allan, e io sono… onorato di essere paragonato a uno come lui perché parliamo di altre categorie, però non è così.
Tant’è vero che nel pezzo che gli hai dedicato esplicitamente sull’album lavori diversamente, non sul suono e sull’uso del legato quanto su una ricerca armonica, no?
No… sai perché l’ho dedicato a lui? Perché tre anni fa Bill DeLap, quello che gli aveva costruito la famosa chitarra, me la prestò per qualche mese. Io ero interessato a farmi costruire uno strumento che adesso invece sto sviluppando con DV Mark (anche di questa è prevista l’uscita a breve…) e ci incontrammo diverse volte da lui a Monterey per parlarne. Aveva la chitarra storica di Allan, che era morto da poco, e mi propose di portarla a casa per suonarla e vedere se mi piaceva.
Non so cosa successe, ma quando tornai a casa proprio nelle prime ore in cui la suonavo venne fuori questa canzone, così com’è. Come fosse stato Allan a parlarmi attraverso la chitarra! Questa è stata forse la seconda che ho scritto per questo album e l’ho lasciata così com’era, come era venuta fuori registrandola al volo col telefonino per poi metterla in “bella copia”.
Forse si sente il suo spirito perché lo strumento mi aveva influenzato, non lo so… mi piace pensarlo romanticamente come fosse stato un suo saluto.
Bello… parlando di Allan mi viene in mente che in un brano di Interlucent c’è anche una breve apparizione del SynthAxe, strumento del quale lui è stato pioniere…
Sì, l’ho tirato fuori alla fine, quando avevo già registrato tutto e l’ho usato in “Khetwadi Lane”, dove c’è questa voce che non si capisce cos’è… non volevo cantare e non volevo che fosse solo strumentale, allora ho rispolverato il Synthaxe dopo 30 anni che non l’usavo.
Come hai ottenuto quella voce?
È tutta una serie di plugin
E invece la voce su “G. on a sunny day” è vera?
No, quello è un campionamento, ma alla fine c’è mia figlia che ride e fa un sssshhh finale che mi sembrava giusto!
Quindi l’arrivo del modello definitivo della tua chitarra DV Mark è imminente?
Sì, dipende solo dalle tempistiche di produzione (probabilmente entro l’estate secondo l’azienda italiana). Il prototipo che vedi lì ce l’ho da quasi un anno ed è il secondo, perché all’inizio avevo disegnato un corpo più piccolo e non funzionava, ma in effetti Marco (De Virgiliis) mi ha lasciato fare e sono molto contento, la chitarra è veramente bella.
Parte da questo mio concetto che la chitarra elettrica è diventata come le produzioni pop, tutto compresso, tutti i pickup ultra-distorti…
Facevo così fatica con le chitarre e con gli amplificatori moderni a togliere piuttosto che aggiungere quello che ti danno. Volevo una chitarra che avesse dinamica, un suono che puoi controllare… questa è una specie di violino per certi versi, vuota dentro ma realizzata in una maniera interessante.
Volevo dei pickup con low output come i vecchi PAF degli anni ‘50-’60 perché non volevo che i magneti bloccassero le corde come nei pickup moderni, dove sei costretto ad alzare il gain per avere più distorsione e viene fuori quella “zanzara” che odio. Un pickup che fosse caldo senza stoppare la vibrazione della corda su una chitarra piccola, leggera.
Ho comprato una Carvin senza paletta, qualche anno fa… una volta adottata quella cosa lì non torni più indietro, perché tutta quella roba in più (indica la paletta) non serve a niente… per quanto riguarda la chitarra elettrica, almeno.
Da un giorno all’altro, insomma, mi dovrebbe arrivare la chitarra finita e spero che esca prest, fra l’annullamento del NAMM e il Covid ci sono stati ritardi per tutte le produzioni… sarà la prima chitarra DV Mark.
Io sono contentissimo, tutto l’album l’ho fatto con questo prototipo: tra il pedale e questa chitarra io sono in paradiso… per ora, poi si vedrà!
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