Il disco in vinile, il suono analogico. O meglio, si spera che sia totalmente analogico. È un male se subentra il digitale? Beh per molti è la rappresentazione sonora di Satana, ma in realtà non è per forza sempre così.
Però diciamolo, se è tutto analog 100%, siamo più contenti, effetto placebo o qualità reale che sia, non dimenticandoci mai che ciò che fa la differenza è la componente umana, cioé chi si è occupato di produrre quel supporto per ascoltare musica e l’incisione ivi contenuta.
Se siete tra coloro che hanno sempre ascoltato la musica in vinile o siete approdati ai dischi solo negli ultimi anni, almeno una volta nella vita vi sarete trovati davanti quell’adesivo sul cellophane che dice a chiare lettere “mastered from the original master tapes“, o qualcosa di simile (“analog tapes” etc…).
In realtà questo è anche ravvisabile sui supporti digitali come il buon (e oramai anch’esso vecchio) cd, se il lavoro di remastering è stato fatto direttamente dalla fonte originale.
Che cos’è un master tape?
Chiaramente stiamo parlando di dischi datati, precedenti all’era delle registrazioni digitali in studio. Un “master tape” è esattamente il nastro originale su cui è stata incisa la musica dell’artista, band, orchestra o altro. Fatta eccezione per i nastri multitraccia che poi venivano riversati, ad esempio, su un nuovo nastro a due tracce (George Martin lo faceva regolarmente con i Beatles anche per aumentare le possibilità di sovraincisione sui brani), in tal caso si può considerare quest’ultimo il master tape.
Comunque sia, parliamo di ciò che è stato concepito e finalizzato in studio di registrazione e poi dato ai tecnici per produrre le prime stampe in vinile del disco (le prime lacche per essere precisi).
Ora, siccome questi master tape non potevano fare il giro del mondo per ovvi motivi e probabilmente anche per cautela di archiviazione, venivano generate delle copie. Anche perché quando si produce un disco in centinaia di migliaia (o milioni) di stampe, non si può sfruttare lo stesso nastro all’infinito (per generare nuove lacche e stamper), poiché questo subirebbe una veloce degradazione.
Quindi stabiliamo una prima regola: se c’è scritto “original master tape” dovremmo essere rassicurati che chi ha ristampato il disco abbia chiesto all’etichetta discografica di cercare nei propri archivi esattamente quel nastro originale, non le copie (non che queste siano il male comunque, come già detto erano anch’esse utilizzate anche per stampare i dischi all’epoca).
Il difetto… è un difetto?
Questo perché in teoria solo nel master tape si può avere la sicurezza di trovare il 100% dell’informazione musicale originale, percentuale che nelle copie può essersi abbassata di qualche punto.
Paranoia? Stiamo parlando di particolari inudibili? Magari sì, magari no. Dipende da una miriade di fattori e casi specifici.
Chad Kassem, CEO di alcune aziende sulla vetta della produzione di dischi in vinile di qualità (Acoustic Sounds/AnalogueProductions/Quality Records) non ha dubbi nell’affermare che è addirittura sempre meglio usare il nastro originale anche se questo è più deteriorato della copia. E che, tranne le classiche procedure per far sì di poterlo riusare (piuttosto complesse, non ne parleremo qui, vi basti sapere che non basta prendere la bobina e piazzarla su un riproduttore, potrebbe infatti rovinarsi irrimediabilmente), è sempre meglio lasciare il difetto in ascolto sul prodotto finale, poiché non si deve rischiare di abbassare la qualità su tutto solo per ovviare a poche singole imperfezioni.
Io mi sento di concordare con lui in buona parte dei casi (escludendo chiaramente gli estremi) e sono anche della scuola che se sul nastro c’è il “soffio” di fondo va lasciato e non bisogna cercare di eliminarlo con sistemi di soppressione del rumore vari, che solitamente ammazzano anche una parte di frequenze importanti.
Nessuno è infallibile
Detto ciò, non siamo che a metà dell’opera, anzi neanche. Perché se pensate che tutte le etichette discografiche siano sempre esattamente in grado di indentificare il nastro originale, vi sbagliate. Capita spesso che siano inviate le copie. Più o meno coscientemente.
In pratica, pretendere il master tape originale è un lavoro di “stalkeraggio” a volte…
Senza contare i casi in cui siano stati fatti veri e propri errori scoperti solo dopo molti anni o decenni, come nel caso dei mixdown e della della velocità di riproduzione di Kind of Blue di Miles Davis, vi lascio approfondire la cosa sia in un video dei miei Ti Consiglio un Disco sia in un ottimo articolo di Michael Fremer.
Etichette di cui fidarsi
Chiaramente, una volta ottenuto, si ha in mano la testimonianza più preziosa dell’incisione del disco, ma altrettanto ovviamente dobbiamo ricordarci che non è certo fresco come decenni prima, che i nastri si degradano, che spesso hanno problemi di varia natura, quindi quando acquistate un disco “sourced from original master” non vi aspettate di comprare lo stesso disco di chi si recò in negozio 40 o 50 anni prima, alla sua uscita.
Però, fidatevi, i risultati possono essere comunque esaltanti, se vi affidate alle giuste etichette.
Una l’abbiamo citata sopra, Analogue Productions, poi ce ne sono altre come Speakers Corner, Impex, Classic Records, ORG, Pure Pleasure, Sam Records e altre. Oppure alcune serie pubblicate da label famose, come le recenti ristampe Tone Poet della Blue Note o la serie Acoustic Sounds della Verve.
Ci sarebbe poi la storica e ottima Mobile Fidelity, anche se le recenti polemiche hanno ravvisato un passaggio del master in digitale (ma attenzione, in altissima risoluzione, 64 o addirittura 256 volte superiore a un normale cd), nonostante questo i loro prodotti valgono spesso quello che costano (ahimè, molto) fino all’ultimo euro/dollaro.
Noterete una triste costante: questi dischi costano molti soldi. Questo perché trovare e lavorare i master originali costa, in effetti, molti soldi.
Il personale qualificato (parliamo di non molte persone in tutto il pianeta) e i macchinari giusti costano soldi.
Stampare su buon materiale vinilico in un buon stabilimento costa soldi (ad esempio RTI, Pallas o Quality Records).
Fare una copertina ben stampata, dai colori vividi, dal cartone spesso, con le inner sleeve antistatiche, costa soldi.
Buttare via gli stamper ogni 500 copie per mantenere costante la qualità della stampa, costa soldi.
Avere un controllo qualità su tutto il processo e sul prodotto finale, costa soldi.
Infine, la maggior parte di queste stampe sono fatte oltreoceano e tra spese di importazione e dazi doganali, il prezzo è ben maggiore qui che nel Paese d’origine (io stesso posso confermarvi di aver pagato certi dischi negli USA alla metà del prezzo europeo, se andate negli States portatevi un trolley vuoto di riserva…).
L’adesivo dice sempre la verità?
Veniamo ora alla domanda più importante di tutte: se sull’adesivo c’è scritto “from original master tapes“, posso stare tranquillo al 100%?
Risposta breve: no.
Risposta elaborata: per essere sicuri dovrebbe esserci scritto “remastered and cut from original master tapes” oppure “lacquer from original master tapes“.
Questo perché tra il nastro e il disco in vinile ci sono tutta una serie di operazioni, tra cui il cutting della matrice. Questa operazione può essere stata fatta anche dopo aver riversato il nastro analogico in un formato digitale ad alta risoluzione, chiaramente processato appositamente per la stampa in vinile.
Il che non è il male a prescindere, come ho già detto, bisogna capire il perché, il chi e il come.
La classifica dei supporti analogici
Se è un prodotto total analog che stiamo cercando, la seguente è la scala di valori che dovremmo considerare: in cima a tutto sta una copia del master tape.
Attenzione, non mi sto contraddicendo rispetto a quanto detto all’inizio, intendo proprio una copia del master che possiamo riprodurre a casa con un lettore a bobine! Non c’è niente, sottolineo niente, che si possa avvicinare a quel risultato in campo analogico.
Ma per ovvi motivi, i costi sono alle stelle e poi ci vuole tanto tanto know how per far funzionare un lettore a bobine (e sua manutenzione!).
Al secondo posto troviamo la stampa in vinile a 45 giri. Per chi non è avvezzo, sto ancora parlando dei dischi “grandi”, da 12 pollici. In Italia siamo abituati a dire “45 giri” riferendoci ai 7″, quelli con un brano per lato da vecchio juke box, ma la velocità di rotazione non c’entra nulla con le dimensioni del supporto.
Il plus del formato 45rpm è che la velocità maggiore di rotazione ha buoni influssi sulla riproduzione e, soprattutto, essendoci meno brani per ogni facciata, questi possono occupare più spazio, con solchi più ampi e profondi, da cui ne consegue una maggiore dinamica e un maggior dettaglio.
Il contro è il doversi alzare più spesso per cambiare lato (ma se è un fastidio, datevi allo streaming comodamente seduti sul divano).
Medaglia di bronzo per il classico 33 e 1/3rpm (il “33 giri”), che comunque può suonare in maniera stratosferica se ben fatto! Prendete un esemplare delle etichette sovracitate per capire cosa intendo, sarà una gioia per le orecchie.
Nel mondo della riproduzione analogica, solo dopo queste tre posizioni del podio si piazza il disco in vinile prodotto da una fonte analogica convertita in alta risoluzione digitale e questo, oltre che per risparmio sui costi, può essere avvenuto per varie ragioni tecniche del tutto giustificabili, a partire dal non sfruttare eccessivamente il nastro originale.
Tutto dipende da chi ci ha lavorato e come! Ascoltate ad esempio i tanti remix fatti da Steven Wilson che sicuramente non suonano “digitali” nel senso offensivo del termine (che non dovrebbe esistere, ma esiste). Segno che anche in questo modo si arriva a risultati molto buoni.
Stessa identica cosa per le ultime riedizioni dei Pink Floyd, per le quali lo sticker dice “remastered from the original analogue tapes” da tre grandi tecnici del suono (James Guthrie, Joel Plant e Bernie Grundman che ha fatto il cutting), ma tale dicitura va spiegata: i nastri sono sicuramente gli originali, ma sono comunque stati digitalizzati ad altissima risoluzione per il nuovo remaster (o addirittura remix nel caso di Animals).
Risultato sonoro? Mi pare che nessuno se ne sia lamentato, suonano assai bene.
Attenzione, se il lavoro è stato fatto coi piedi vale anche il contrario, cioé un lavoro del tutto analogico può anche suonare male! Diciamo che è più raro, considerando le cifre investite è davvero una bella zappata sui piedi, ma può succedere.
Nota bene: un vinile prodotto a partire dall’alta risoluzione digitale non è “il cd stampato su vinile“. Il master per cd è un altro tipo di prodotto e non potrebbe essere mai messo così com’è su vinile, per ragioni strettamente tecniche.
Certo, poi ci sono le produzioni per le quali il disco in vinile può non valere effettivamente la pena, quelli malfatti, ricavati da fonti non precisate o addirittura i contraffatti, ma questa è un’altra storia, ve l’ho accennata in questo articolo…
Il grosso del problema per noi fruitori di musica in vinile, è che spesso anche chi fa un buon lavoro non indica sullo sticker promozionale il fattore “cutting”, anche perché lo capirebbe effettivamente solo una nicchia di appassionati. Eppure sarebbe bene dirlo.
Comunque, ogni etichetta che si rispetti comunica sul suo sito web e sul disco stesso (sul retro o all’interno) chi si è occupato della parte tecnica e alla fine vi abituerete a sentir nominare personaggi come Kevin Gray, Bernie Grundman, Krieg Wunderlich, Steve Hoffman, Chris Bellman, etc… se siete appassionati di vinile diventeranno i vostri “migliori amici”.
Buoni ascolti, occhio agli specchietti per le allodole e ricordate che un buon cibo è buono per gli ingredienti, per la ricetta, ma ciò non toglie che serve sempre un buon cuoco altrimenti si va di 4 salti in padella…
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