Campione di precisione, attenzione ai dettagli e cura del suono, con oltre 50 anni di carriera alle spalle (è nato a Bologna nel 1953 e ha iniziato assai presto la professione), Lele Melotti ha un’esperienza enorme da trasmettere, oltre a quantità massicce di informazioni ‘di prima mano’ verificate sul campo (ossia tanto sul palco quanto in sala d’incisione).
Sarebbe quindi il protagonista perfetto di incontri didattici, master class, clinic o quant’altro, per spiegare a giovani aspiranti batteristi cosa serve veramente per rendere la propria passione una professione…
Ma, complici i continui impegni lavorativi, un carattere decisamente riservato e forse anche un’eccessiva modestia, Melotti non è mai stato troppo attivo sul versante degli incontri didattici.
Ha rappresentato quindi un’occasione quasi unica poterlo incontrare a margine di L’unione fa la musica presso la John Coltrane Music School di Roma, una doppia master class a tre voci che lo ha visto esibirsi insieme ai colleghi Gianfranco Romano e Fabio Sipone, che ringraziamo per avere reso possibile quest’intervista.
Il Melotti… allievo
Sei stato allievo a Milano del grande Enrico Lucchini. Ma chi è stato il tuo primo insegnante?
Ho iniziato con Ubaldo Rivi a Bologna, poi lì mi sono iscritto al conservatorio e ho fatto i primi quattro anni, ma intanto lavoravo già con le orchestre.
Possiamo dire che è venuta prima la pratica – la professione – rispetto allo studio?
Beh, diciamo che sono andate di pari passo.
E la passione per lo strumento, com’era venuta fuori?
Per puro caso: mi è sempre piaciuta la musica e ho iniziato ad appassionarmi alla batteria forse la prima volta che ho visto lo strumento, che l’ho toccato.
Amore a prima vista?
Sì, direi di sì, anche se ho iniziato piuttosto tardi, intorno ai 15 anni, quando ancora studiavo: ero iscritto a Ragioneria.
E il primo contesto lavorativo qual è stato?
Quello delle orchestre da ballo: ce n’erano davvero tante, come c’erano tanti locali da ballo. Si lavorava soprattutto in estate lungo l’intera Riviera Romagnola, ma anche in inverno tra Emilia, Toscana, Lombardia…
Non sto parlando delle orchestre di liscio, che facevano solo il repertorio folcloristico – valzer, tanghi, mazurche -, ma di orchestre il cui repertorio spaziava dai successi italiani del momento a quelli internazionali, e che prima che si iniziasse a ballare e prima della fine della serata suonavano degli standard jazz veri e propri: insomma un repertorio immenso e molto bello, che ha rappresentato una scuola stupenda.
Ma parallelamente hai avvertito anche la necessità di perfezionarti, se hai deciso di prendere lezioni…
Sì, suonare mi piaceva moltissimo, per cui ho deciso dapprima di prendere lezioni, quindi di iscrivermi al conservatorio di Bologna, che purtroppo non ho completato.
Quello di Percussioni era all’epoca un corso straordinario e bisognava essere iscritti al corso inferiore di un altro strumento. Fortunatamente all’epoca suonavo con la big band del conservatorio, organizzata dal docente di trombone, che mi aveva dato l’opportunità di iscrivermi al suo corso. Quindi studiavo per un 10% del mio tempo il trombone e per il 90% il tamburo, che mi ha sempre appassionato tantissimo.
Arrivato al quarto di sei anni, quando marimba e vibrafono diventavano basilari, non sono riuscito a proseguire, anche perché suonavo tanto in giro e volevo studiare la batteria. Quindi, con tanto dispiacere, ho dovuto fare una scelta…
E hai scelto Lucchini come insegnante…
Avevo saputo che a Parma, in un posto vicino al conservatorio, una volta alla settimana andava a insegnare Enrico Lucchini, e feci lì un anno, per poi frequentare per ancora un anno o due la sua scuola di Milano.
Ti eri già trasferito in quella città?
No, ma avevo già iniziato a farci qualche ‘scappatina’ lavorativa.
Che tipo di lezioni facevi con Lucchini? Gli chiedevi argomenti specifici o era lui a ‘imporre’ un suo programma?
Enrico faceva la sua scuola, il suo insegnamento era quello. Se avevi bisogno di qualcosa di specifico, logicamente ti veniva incontro dandoti una mano, ma sempre facendoti capire che attraverso il suo linguaggio, il suo insegnamento, saresti comunque arrivato a risolvere il tuo problema. Ti faceva capire il percorso.
Quello che diceva sempre – e io sono assolutamente d’accordo – è che se vuoi essere un batterista completo non puoi bypassare alcuni argomenti. Non è che passi ad altro perché questa cosa specifica non ti piace o ti sembra facile solo perché ne sai fare una più difficile. Se hai saltato quel determinato punto, quello non lo sai. E io sono tuttora molto convinto di questo ragionamento.
E lo applichi ai tuoi allievi?
Certo. E quando mi fanno le fatidiche domande “Ma perché faccio questo? A cosa mi serve? E dove lo metto?” io rispondo con quello che mi era stato detto a suo tempo: “Tu immagazzina, non ti preoccupare, e quando sarà il momento lascia che sia quello che hai immagazzinato a venir fuori…”.
Se una cosa la fai senza che tu te ne accorga significa che è veramente tua, che l’hai assimilata e la puoi utilizzare, non per forza, ma quando serve, quando ci sta bene.
In sala di registrazione
Passiamo alla tua attività in sala d’incisione: ti ricordi quando è cominciata?
Ho iniziato a Bologna a fine anni Settanta, primi anni Ottanta con la Fonoprint, e a Modena, con le registrazioni delle orchestre. Poi di lì a poco c’è stato Vasco Rossi e qualche altra produzione. Piano piano ho cominciato a ricevere qualche chiamata da Milano, dove iniziava a girare la voce.
Ma la prima registrazione in assoluto te la ricordi?
Fu per il disco dell’orchestra da ballo di Giancarlo Branca: andammo allo studio bolognese del grandissimo pianista Annibale Mudoni e registrammo lì, da dove poi è partito tutto: Annibale si era trovato bene e aveva cominciato a chiamarmi per fare i suoi lavori.
Quindi mai sottovalutare alcun tipo di impegno…
Assolutamente: le prime volte che andavo a Milano, per l’80% dei casi registravo dei ‘provini’: non essendoci le macchine odierne si doveva fare così per far ascoltare un brano. Si veniva pagati come per un turno e quanto registrato veniva in genere poi rifatto dai musicisti di fiducia di categoria superiore. Oppure, se piaceva molto, veniva tenuto per fare il disco, e magari ci si informava su chi aveva realizzato il provino e la volta successiva ti chiamavano per registrare direttamente il disco…
E nelle tue prime esperienze in studio qual era la tua preoccupazione? Andare dritto, metterci qualcosa di personale?
Fare un lavoro fatto bene e accontentare il cliente. Fortunatamente allora c’erano tanti arrangiatori veramente bravi, quindi il 90% delle volte arrivavi lì e trovavi la parte scritta e… staccavano subito 4.
Questo tipo di lavoro, fatto tutti i giorni per due o tre volte al giorno, ha rappresentato per me una possibilità grandissima di crescere e di migliorare la lettura, la pratica…
Come se, in un colpo solo, si avesse la possibilità di progredire sotto tutti gli aspetti del drumming: lettura, tecnica, dinamica, capacità di seguire il click…
No, il click no, all’epoca non c’era. A questo proposito ripeto una cosa che consiglio sempre ai miei allievi: lo studio con il click è indispensabile quando siamo da soli e affrontiamo una cosa nuova, perché il click ci dà la possibilità di capire se la stiamo facendo nel modo, nel tempo e col bilanciamento giusti.
Ma una volta che ci sentiamo a nostro agio, quello è il momento di togliere il click e continuare a studiare senza, per sentire se la nostra sensazione interna è uguale a quando il click c’è: una volta che ti ci sei abituato, suonare è molto più semplice, perché il tempo lo porta lui. Ma la cosa più giusta è che il tempo lo porti il batterista!
Altri insegnamenti tratti dalla tanta gavetta fatta in studio di registrazione?
Beh capitava anche che i fonici ti facessero notare, per esempio, che il tuo charleston suonava troppo più forte di altri pezzi. E magari ti dicevano: “io un po’ ti posso aiutare, ma sei tu che mi devi dare un suono più bilanciato”.
Quindi, ancora oggi, il fonico se è bravo ti aiuta a migliorare il suono, ma il mix dello strumento dobbiamo darlo noi.
Hai avuto modo di collaborare con artisti straordinari sia in tour sia in sala d’incisione: hai preferenze tra queste due dimensioni della tua professione?
A me piacciono entrambe allo stesso modo. Ho lavorato di più in studio perché le cose sono andate così: c’era richiesta e a me la situazione piaceva. Ritengo comunque che, com’è importante saper lavorare in studio, sia altrettanto importante, se non di più, suonare dal vivo insieme alle persone.
Prima facevi riferimento ai ‘musicisti di fiducia di categoria superiore’ dei produttori dell’epoca: c’è stato un momento in cui hai realizzato che eri entrato in quella ristretta élite?
Non l’ho mai pensato, anche perché tuttora, se mi faccio un esame di coscienza, non mi sento a posto, sento che quella cosa lì potrei farla meglio, quella cosa là a suo tempo potevo farla e non l’ho fatta… Per esempio, sono sempre stato un appassionato di jazz e da ragazzo lo suonavo – o meglio, ci provavo… Ecco, se avessi continuato magari adesso suonerei decentemente anche quello.
Tornando alla tua domanda, non mi sono accorto dello ‘scalino’, ho continuato a far le cose senza star lì a fare considerazioni del tipo “questa cosa è importante, quest’altra no”, oppure “questa cosa mi piace, quest’altra no”.
Mi piace suonare e quello che mi propongono cerco di farlo funzionare. La mia più grande soddisfazione è sempre stata quella. E per lo stesso motivo il 90% delle volte non sono soddisfatto quando me ne torno a casa…
Riferimenti ed esperienze in tour
Quali sono i tuoi modelli di riferimento, batteristicamente parlando?
Senza dubbio quello che ho più ammirato e sviscerato è stato Jeff Porcaro. Poi sono sempre stato innamorato di Gadd e del suo modo di pensare la batteria.
Ovviamente mi piacciono da impazzire Colaiuta e Weckl, ma un batterista come Steve Jordan ‘mi riempie’ ancora di più, per così dire.
Keith Carlock è un altro musicista fantastico. E non ci dimentichiamo di Peter Erskine: dove c’è lui, come per incanto, va tutto a posto!
C’è una registrazione di cui sei particolarmente fiero?
Ci son tante cose che mi son piaciute; di molti lavori non rammento neppure i titoli, ma ho un ottimo ricordo delle sedute, anche se magari si trattava di cose ‘di nicchia’.
Quanto ai lavori più conosciuti, mi sono molto divertito – anche perché di fatto era una sessione live – a registrare “Che Dio ti benedica”. E in genere in tutti i dischi di Pino Daniele c’era musica, si suonava; e quando a lui piaceva una cosa diceva: “Basta!”, anche se c’era la ‘scarafata’. E alla fine aveva sempre ragione, perché a riascoltarli i dischi suonavano bene.
Un tour che ricordi volentieri?
Bellissimo quello di Oro, incenso e birra con Zucchero, con un live al Cremlino. Tutti i tour di Pino, quelli con Renato (Zero), perché c’è una bella band e la musica esce sempre, e così quelli con Eros (Ramazzotti).
E se hai modo di ascoltare un po’ di musica, che genere prediligi?
Per l’80% ascolto jazz: tutto il periodo di Parker, Davis e Coltrane, anche se il mio gruppo preferito è il quintetto di Miles con Tony Williams, Herbie Hancock, George Coleman e Ron Carter.
Poi, attenzione: ascolto anche altra musica, oltre il jazz, anche se non sento molte cose nuove che mi appassionano. Ci sono dei gruppi che mi piacciono, tipo Hiatus Kaiyote.
Parliamo di strumenti
Parliamo di strumenti: nell’ambiente lavorativo degli studi di registrazione sei libero di utilizzare ciò che preferisci? E hai qualche ‘abitudine’ particolare, da questo punto di vista?
Assolutamente libero: utilizzo batterie Yamaha, piatti Zildjian, pelli Remo e bacchette Drum Art.
Cerco di portare a ogni seduta di registrazione più rullanti possibile, perché non amo tanto snaturarne il suono: mi piace trovare il range in cui ogni tamburo suona al meglio e da lì tocco veramente poco. Se devo toccare tanto, preferisco cambiare rullante. Me ne porterei 30 dietro, ma è impossibile, quindi tra i quattro e i sei me li porto sempre appresso.
Cambiando il rullante, o a volte qualche piatto (un paio di ride li ho sempre con me, magari uno più crashabile, l’altro meno morbido), già sembra che cambi l’intera batteria. Se poi tocchi appena un po’ i tom puoi cambiare drasticamente il suono.
A questo proposito ti chiedo, c’è modo di educare alla cultura del suono? Te ne occupi nelle tue lezioni e nei tuoi corsi accademici?
Assolutamente sì, parlo sia dell’intonazione sia dello strumento migliore per il tipo di genere che devi suonare, e comunque l’intonazione rappresenta un argomento basilare.
E i tuoi allievi recepiscono il messaggio?
Sì, la gran parte si dimostra interessata e mette in pratica quello che si dice a lezione. Soprattutto quanti vogliono fare della loro passione un mestiere: a chi è interessato solo a ‘fare i colpi’ la cura del suono può sembrare una perdita di tempo…
Una cosa che potrebbe dare fastidio…
C’è una cosa che voglio dire, anche al di fuori delle tue domande.
Prego…
Magari potrà anche dare fastidio, ma voglio dirla lo stesso. Sento un po’ troppo spesso, ultimamente, parlare di testi, intesi come metodi, e dire che sono obsoleti o sorpassati. Non sono d’accordo e ci andrei assai piano prima di fare certe affermazioni.
Saranno anche libri che hanno 60 anni, ma da quelli sono passati tutti quei batteristi che noi guardiamo a bocca aperta: come possono essere diventati obsoleti?
Saranno vecchi, ma se tu non li fai, ricordati che non li conosci, che hai una lacuna! E magari si adottano nuovi metodi che fanno la stessa cosa, solo complicandola, aggiungendo un sacco di colpi. Fai un milione di colpi, ma non sai come sei arrivato a farli.
Quello che manca drammaticamente è proprio la conoscenza della storia e dell’evoluzione del nostro strumento, e anche della sua didattica. A questo proposito, ci sono dei punti cardine nel tuo sistema di insegnamento?
Seguo un percorso molto classico, non nel senso del conservatorio, ma degli studi batteristici: Stick Control e Accents & Rebounds di Stone sono due pietre miliari dalle quali è necessario passare, cominciando a studiare lo strumento, come anche dal Syncopation (di Reed).
Poi secondo me per la batteria è basilare lo studio del tamburo: quindi bisogna conoscere i vari Wilcoxon, oppure NARD, oppure Pratt; e senza limitarsi alla tradizione americana dei rudimenti, consiglierei anche un briciolo di più ‘classico’, tipo Delécluse o Lefèvre, per trovare il massimo dell’espressione nelle dinamiche, nei closed roll, nei press.
Tutte cose che poi ti ritrovi sullo strumento sia a livello tecnico che dinamico e di controllo.
E per la coordinazione batteristica, invece?
Sono fissato con i Rhythmic Patterns di Joe Cusatis per i ‘pesi’ sul drumset; poi Future Sounds di Dave Garibaldi per la coordinazione, per i groove: il suo sistema di ‘spostamenti’ è fantastico per farti trovare diversi bilanciamenti interni, fisici, per poter far suonare bene i vari esercizi; spostandoti delle cose ti costringe a trovare il tuo balance, quello che io chiamo il tuo upstroke e downstroke sia nelle mani che nei piedi, per ottenere movimenti coordinati e armonici.
Parziale elenco di album incisi da Melotti
1981: Paris Milonga (Paolo Conte); Siamo solo noi (Vasco Rossi); Fabrizio De André.
1982: Vado al massimo (Vasco Rossi); Kamikaze Rock ’n’ Roll Suicide (Donatella Rettore); 82 (Raffaella Carrà).
1983: Bollicine (Vasco Rossi); Atmosfera (Adriano Celentano); Voulez vous danser (Ricchi e Poveri); Un po’ di Zucchero (Zucchero Fornaziari); Nell’aria (Marcella Bella); Fiorella Mannoia.
1984: Quando arriverà (Iva Zanicchi); Gaber (Giorgio Gaber); Mediterranea (Giuni Russo); Fabio Concato.
1985: Cosa succede in città (Vasco Rossi); L’importante (Enzo Jannacci); Oxa (Anna Oxa); Petra (Pierangelo Bertoli); Zucchero & the Randy Jackson Band.
1986: Nuovi eroi (Eros Ramazzotti); Azzurra malinconia (Toto Cutugno); Effetti personali (Sergio Caputo); Giuni (Giuni Russo).
1987: La pubblica ottusità (Adriano Celentano); In certi momenti (Eros Ramazzotti); C’è chi dice no (Vasco Rossi); Invisibile (Umberto Tozzi).
1988: Inseguendo l’aquila (Mango); Non c’è neanche il coro (Fausto Leali); Canzoni per parlare (Fiorella Mannoia).
1989: Liberi liberi (Vasco Rossi); Sono cose che capitano (Biagio Antonacci); Leali (Fausto Leali).
1990: Le nuvole (Fabrizio De André); Quan te storie (Ornella Vanoni); Cambio (Lucio Dalla); In ogni senso (Eros Ramazzotti); Giovani Jovanotti (Jovanotti).
1991: Guarda la fotografia (Enzo Jannacci); Live at the Kremlin (Zucchero).
1992: I treni a vapore (Fiorella Mannoia); In viaggio (Fabio Concato).
1993: Ufficialmente dispersa (Loredana Bertè); Che Dio ti benedica (1993); Gli spari sopra (Vasco Rossi).
1994: A che ora è la fine del mondo? (Luciano Ligabue); La musica che mi gira intorno (Mia Martini); L’imperfetto (Renato Zero); King Kong (Gino Paoli).
1995: Una sgommata e via (Pala Turci); Non calpestare i fiori nel deserto (Pino Daniele); Passo dopo passo (Gigi D’Alessio).
1996: Cremona (Mina); Arrivano gli uomini (Celentano).
1997: El bandolero stanco (Roberto Vecchioni); Rock (Vasco Rossi); Belle speranze (Mannoia).
1998: Yes I Know My Way (Pino Daniele); Amore dopo amore (Zero); Il dito e la luna (Angelo Branduardi).
1999: Sogna ragazzo sogna (Vecchioni); Ancora in volo (Al Bano); Io non so parlar d’amore (Celentano).
2000: Tutti gli zeri del mondo (Zero); Esco di rado e parlo ancora meno (Celentano); Max Gazzé.
2001: Come gli aeroplani (Jannacci); Ferro Battuto (Franco Battiato); Medina (Pino Daniele); Fragile (Mannoia).
2002: Il lanciatore di cortelli (Vechioni); Se (Gino Paoli); Alexia.
2003: Lampo viaggiatore (Ivano Fossati); Cattura (Renato Zero).
2004: Eros Roma Live (Ramazzotti); A chi si ama veramente (Gianni Morandi).
2005: Un mondo perfetto (Dolcenera); Il dono (Zero); Babybertè (Loredana Bertè).
2006: Bau (Mina); Made in Italy (Gigi D’Alessio).
2007: Todavia (Mina); Una bellissima ragazza (Vanoni).
2008: Il mondo che vorrei (Vasco Rossi); Malika Ayane.
2009: Manifesto abusivo (Samuele Bersani); Stupida (Alessandra Amoroso); Facile (Mina).
2010: Caramelle (Mina); Segreto amore (Zero).
2011: Chiamami ancora amore (Vecchioni); Piccolino (Mina); Puro spirito (Zero).
2012: Noi (Ramazzotti); Sud (Mannoia); Ottantotto (Tazenda).
2013: Amo – Capitoli I e II (Zero); Max 20 (Max Pezzali).
2014: Selfie (Mina); A volte esagero (Gianluca Grignani).
2015: Dov’è andata la musica (Dodi Battaglia & Tony Emmanuel); Libera (Ana Tatangelo).
2016-2018: Alt; Zerovskj; Alt in tour (Zero); Ogni volta che è Natale (Raffaella Carrà); Maeba; Paradiso (Mina).
2020: Zero Settanta (Zero).
2021 Antìstasis (Tazenda).
Cover photo courtesy of Mogar Music
Farà un metodo Lele?
Ciao Frank_guitarromane_85, non sappiamo se ci sono progetti in cantiere 🙂