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James Jamerson, un patriarca del basso elettrico

Sono pochi, pochissimi gli artisti che possono vantare di aver lasciato nella storia del basso elettrico un'impronta paragonabile a quella di James Jamerson.

Partiamo dal Basso con un artista delle corde grosse la cui unicità è passata alla storia già soltanto a partire dal suo approccio tecnico. Contrabbassista di razza, fu grazie a queste radici che si guadagnò il soprannome The Hook (letteralmente “l’uncino”), avendo traslato sul basso elettrico la consuetudine di pizzicare le corde con il solo dito indice, in una maniera per l’appunto più assimilabile a chi suona l’upright bass.

Le origini di James Jamerson

Fu nell’area di Detroit (dove si era trasferito in gioventù dalla natia South Carolina) che Jamerson consolidò la sua esperienza musicale, già arricchita dall’approccio giovanile al pianoforte, dedicandosi al contrabbasso moderno sulla falsariga di un punto di riferimento come Ray Brown.
L’esperienza nei club jazz e blues della principale città del Michigan gli valse i primi riconoscimenti professionali, tra i quali la collaborazione col bluesman John Lee Hooker nell’album Burnin’ del 1962, e finì con lo spalancargli la strada verso la sua principale casa e fonte di successi del decennio a venire…

“Nell’ombra della Motown”

È infatti pressoché impossibile svincolare il favore professionale di James Jamerson da un nome, vale a dire quello della Motown.
Nata proprio a Detroit sul finire degli anni ’50, l’etichetta discografica contribuì a lanciare nell’Olimpo del soul e del rhythm and blues (andando in un certo senso anche a definire i generi stessi) artisti come Marvin GayeStevie Wonder (con la sussidiaria Tamla Records), Jackson 5, i Temptations, le Supremes… dobbiamo continuare?

Una buona parte del merito di tanti e tali successi andò all’intuizione di utilizzare un collettivo di musicisti di sessione di altissimo profilo e che garantissero un sound distintivo: nacquero così i Funk Brothers, un gruppo di artisti che l’apprezzato documentario “Standing in the Shadows of Motown” riduce a tredici, e dei quali James Jamerson fu vera e propria punta di diamante al basso; con loro andò a scrivere una delle pagine più importanti nella storia dello strumento.

Melodia e ritmo, si può!

Lo stile di Jamerson come bassista portò un enorme contributo alla causa di quello che viene definito Motown sound. Ciò che colpisce delle sue linee di basso sta nell’elevata capacità di mettere l’elemento melodico al servizio del suo ruolo: Jamerson si produceva in performance tutt’altro che monotone, in contrasto con l’uso più standardizzato di ripetitive figure ritmiche su prevedibili gradi dell’accordo; verrebbe da parlare di fraseggio, se non fosse per la consistenza dell’elemento ritmico nelle sue parti.

Approcci cromatici, rivolti di accordo e un sapiente utilizzo delle ghost notes, uniti a un portamento ritmico variabile e per niente secondario rispetto quello imposto dalla batteria: tutto questo divenne il marchio di fabbrica dello stile di James Jamerson, ben evidente in uno dei suoi masterpiece bassistici, quella “Ain’t No Mountain High Enough” che sancisce il fortunato sodalizio con Marvin Gaye (il quale, vedremo in seguito, dimostrerà di apprezzare tantissimo il bassista).

Un suono che ha fatto scuola

Non meno importante dello stile, e probabilmente altrettanto influenzato dalle radici di contrabbassista, fu il suono. Benché abbia continuato a utilizzare occasionalmente l’upright bass, agli inizi degli anni ’60 fece l’importante passo verso il basso elettrico servendosi di uno strumento iconico come il Fender Precision Bass.

Celebre fu per l’appunto il P ribattezzato The Funk Machine, un modello del 1962 rifinito 3-tone sunburst con tastiera rigorosamente in palissandro e la distintiva presenza del battipenna tortoiseshell e delle cover per pickup e ponte; nascosto sotto quest’ultima un elemento che da decenni manda in estasi i fanatici della riproduzione timbrica, ovvero un pezzo di spugna (o gommapiuma) che attenuava la vibrazione delle corde contribuendo a generare il famoso timbro contrabbassistico.

Proprio le corde costituirono un altro pezzo importantissimo del tone di James Jamerson: l’artista prediligeva infatti l’utilizzo di corde lisce dallo spessore generoso (52-110) e prodotte da La Bella anche nell’odierna versione delle Deep Talkin’. Un particolare curioso sta nella durata della loro “vita”: si dice infatti che, salvo rotture, le corde non siano mai state cambiate perché “The dirt keeps the funk” (letteralmente “Lo sporco mantiene il funk”), come pare sostenesse Jamerson.

L’eredità di un’esistenza non semplice

La vita di Jamerson fu falcidiata da problemi di alcolismo, i quali lo portarono alla prematura scomparsa avvenuta il 2 agosto 1983, a dieci anni dal termine ufficiale della sua collaborazione con la Motown, che nel frattempo si era spostata da Detroit a Los Angeles.
Pur avendo continuato a incidere durante gli anni ’70, l’artista visse in quegli anni un pesante declino produttivo, dovuto in parte ai suoi problemi personali e in parte al sorgere di nuovi punti di riferimento nel mondo del basso elettrico, come la “rivelazione” portata da Jaco Pastorius e la più o meno contemporanea ondata dello slap bass.

Dicevamo più su della stima che Marvin Gaye riponeva in James Jamerson. Si racconta che il cantante fece di tutto per avere Jamerson al basso durante le registrazioni del suo capolavoro What’s Going On (1970), avvenute quando il bassista si trovava agli inizi della sua parabola discendente, tollerandone le pesanti intossicazioni alcoliche che lo costrinsero in alcuni casi a suonare in terra, nell’impossibilità di stare persino seduto.

Ciò non impedì a James Jamerson di incidere alla sua maniera (benché la parte fosse stata scritta dall’arrangiatore David Van De Pitte) uno dei suoi ultimi pezzi da maestro, forse il più conosciuto e apprezzato nell’ambiente:

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