Non si può descrivere Brian Eno in un solo articolo o video e non lo farò. Ma vi darò il suo biglietto da visita, cioé, il suo primo album solista, Here Come The Warm Jets. Disclaimer: non è un disco per chi cerca porti sicuri e piacevolezze al primo ascolto, siete avvertiti…
All’epoca si faceva chiamare solo “Eno” ed era già molto famoso nell’ambiente, sia per essere stato membro dei Roxy Music per i primi 2 album, sia per essere una delle menti più geniali e creative in circolazione, subito avvicinato da altri geni come Robert Fripp e David Bowie (in merito a quest’ultimo, ho opinione che questo disco di Eno se lo sia sentito a ripetizione molte volte e ne abbia tratto non poco…).
Nei primi anni ’70, “Eno” era totalmente immerso nel glam rock. Dal look alla musica. Non è un caso, del resto, se uno dei brani contenuti in questo disco, “Needle in the Camel’s Eye“, abbia fatto da colonna sonora al film Velvet Goldmine (1998), un lungometraggio totalmente dedicato al movimento culturale e musicale glam.
Se c’è un album che negli anni ’70 si può definire sperimentale, questo lo è. Nonostante le follie, restiamo comunque lontani da quelle à la Captain Beefheart di Trout Mask Replica, forse ci sono atteggiamenti più inclini alla verve irriverente di uno Zappa, anche se si passa attraverso lidi musicali decisamente non affini (ma poi chi ha coraggio provi a definirli sia per l’uno che per l’altro…).
La produzione dell’album è stata intensa ed ha coinvolto, come sentirete nel video, una serie di musicisti da far luccicare gli occhi… e pensare che si tratta di un album di debutto!
Tuttavia, la registrazione fu molto serrata e avvenne in soli 12 giorni, nel settembre del ’73 presso i Majestic Studios di Londra. Il titolo, che in slang è in effetti riferito proprio agli schizzi di urina durante la minzione, è stato spiegato da Eno riferendosi al suono di chitarra della title track, la cui distorsione secondo lui suonava come un “getto caldo e… intonato“.
Incredibile anche come lui, un inglese, sia ricorso a una sorta di “finto inglese” per scrivere le parole dei testi. Cioé, cantò sillabe senza senso dietro la musica, che scandivano bene il ritmo che aveva in testa e poi cercò di trovare le parole che suonavano più vicine a quei suoni.
Curiosità: fu lo stesso approccio che usò spesso Lucio Battisti con Mogol, il primo componeva le melodie cantando in un finto – strampalato – inglese, il secondo scriveva i testi seguendo le assonanze.
Ce ne sarebbe da raccontare, ma mi fermo qui. Buona visione del video, ma soprattutto, buoni ascolti.
Non date nulla per scontato, perché qui non c’è niente di prevedibile con un pensiero logico e razionale, Brian Eno fa sempre quello che vuole (anche nei missaggi) ed è un grande amante del processo creativo che nasce dal caso (…si fa per dire…). In sostanza, il primo impatto potrebbe essere difficile, quasi beffardo.
Ma ci sono due aspetti ammirevoli: il coraggio di proporre tante estrose novità, per il ’73, in un solo disco e l’anticipazione, chi ha orecchio lo sentirà, di alcuni aspetti che prenderanno forma e stile concreti solo diversi anni dopo, del resto se sfogliate il vocabolario accanto alla parola “precursore” potreste anche trovare la foto di Brian Eno…
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