Con Big Bad Blues l’ineffabile reverendo Billy F.Gibbons riporta la sua chitarra al potente blues-rock che ne ha fatto una vera e propria icona con gli ZZ Top.
La citazione trasversale del titolo è per il lupo cattivo delle favole, il “big bad wolf” tanto temuto dai porcellini e dalle bimbe in procinto di attraversare il bosco oscuro.
Un vecchio marpione come Gibbons non poteva trovare di meglio per consacrare il suo ritorno al blues greve e fumante.
Dopo la divagazione cubana di Perfectamundo, divertente ma legata a fattori contingenti e ben delimitati, la bussola non poteva che portare in questa direzione, quella del contesto cui Billy appartiene da quasi mezzo secolo e in cui è considerato uno dei santi protettori.
Il bello di essere un’icona è proprio che, in generale, ti si chiede quasi solo di essere coerente con il tuo passato e non di proporre necessariamente qualcosa di nuovo.
Se poi riesci a produrre anche della buona musica, ben venga, ma la forza dell’immagine a volte è sufficiente a imporre prodotti altrimenti discutibili o quantomeno trascurabili.
Tutto questo poco va a toccare un artista che nel corso dei decenni ha dimostrato di essere in grado di proporsi in maniera a volte imprevedibile o poco ortodossa pur di soddisfare un bisogno evidente di divertire, di creare momenti efficaci di spettacolo in cui l’autoironia gioca un ruolo importante.
Prima di dedicare la prossima stagione ai 50 anni di percorso con ZZ Top, dunque, Gibbons ci regala questo album, prodotto di nuovo assieme a Joe Hardy (che suona anche il basso) e al batterista Greg Morrow, già presenti nel precedente album solista. Assieme a loro l’armonicista James Harman e il piano di Mike Flanagan.
Tutto il resto è creato dalle chitarre e dalla voce rauca di Billy F. nell’arco di 11 pezzi che comprendono anche alcune cover dedicate ai maestri Muddy Waters e Bo Diddley.
La regola è fare sempre spettacolo, con ogni nota, ogni parola. Si esagera per default.
La voce è graffiante come vuole la regola e ruggisce impeccabile. Tutto fuma, dall’ampli al sigaro di Billy in copertina, ma non mancano momenti degni di conquistare spazio radiofonico. L’armonica è l’unica scelta per dialogare (la suona anche lui in qualche punto) su ritmica sempre bella dura.
L’album oscilla fin dall’inizio tra canzoni di forte impatto e momenti dal carattere meno intimidatorio, alternando riffoni granitici a ritmiche intriganti come quella di “Mo’ Slower Blues”, uno dei pezzi originali degni di nota assieme all’iniziale “Missin’ Yo’ Kissin'” e alla divertente “Hollywood 151”.
Sul punto di dichiarare i suoi settant’anni incombenti, Gibbons si cala nei panni di “vecchia gloria” ma si può permettere fraseggi che nelle mani di altri suonerebbero solo banali, santificandoli con la giusta dose di salsa messicana e paraculaggine a iosa.
Il suono prima di tutto: meglio due sole note giuste che venti inutili.
Fra i momenti migliori di Big Bad Blues quelli dedicati a un paio di suoi maestri indiscussi, fra stile e arte scenica. In particolare, “Rollin’ and Tumblin'” – grande classico di Muddy Waters – è qui in una versione tosta e dura, molto veloce e con un bell’assolo.
Più heavy dell’originale anche “Bring It To Jerome” di Bo Diddley, incisa nel 1955.
Il rock’n’roll è senza dubbio fatto anche di solide dosi di esibizionismo e teatralità, molto più godibili quando vengono proposte con lo humour che traspare da ogni nota di uno come Gibbons. Non sorprende dunque, in chiusura, la scelta di spiazzare in leggerezza con “Crackin’ Up”, altro hit di Diddley dagli anni cinquanta che chiude l’album con un tocco di ironia che piacerebbe a Tarantino.
Se piace il blues elettrico più classico e si cerca un po’ di sano divertimento, l’album di Billy Gibbons è perfetto. Gran suono, tutti gli ingredienti necessari e perfetta coerenza con il personaggio. Equilibrato, ben compilato e fedele alle premesse, Big Bad Blues è la giusta dose che i fan del reverendo aspettavano da tempo.
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