Nell’intervista pubblicata sulla rivista Chitarre nel 1987 Allan Holdsworth svelava se stesso e i rapporti fatti di luci e ombre con il collega Van Halen.
Troppo “avanti” per arrivare al successo, troppo complesso per essere comprensibile, un genio isolato senza veri eredi grazie al quale il linguaggio chitarristico compie un nuovo passo evolutivo.
Nel 1987 il musicista inglese ha quasi 40 anni e vive da tempo all’interno di un vero paradosso. Riconosciuto e ammirato dai più grandi chitarristi come uno dei maggiori innovatori dello strumento, si confronta quotidianamente con il muro che separa la sua musica, difficile e fuori dagli schemi, da tutto quello che è music business.
Fin dai primi anni ’70 è un riferimento per le avanguardie del jazz-rock nel lavoro con Nucleus, Soft Machine, U.K. e poi con i suoi rivoluzionari album solisti. È un virtuoso inarrivabile con un suono e un fraseggio unici. Negli anni sarà anche pioniere nell’uso della tecnologia come nel caso del futuristico SynthAxe.
L’incontro con il personaggio più dirompente del periodo, Eddie Van Halen, è indicativo del carattere di Allan. Pur di non scendere a compromessi ne esce con le ossa rotte e i debiti fino al collo. La sua personale visione artistica rimane prioritaria e lo sarà fino alla scomparsa nel 2017, quasi dimenticato e privo di risorse.
L’intervista è firmata da Gianfranco Diletti, l’unico che all’epoca – per competenza e amicizia con Holdsworth – si sarebbe potuto permettere la confidenza necessaria per entrare nel vivo di certi argomenti con tanto di duetto di sghignazzi da manuale…
Per un po’ è sembrato quasi che tu stessi per appendere la chitarra al chiodo per evidenti difficoltà con le ‘menti pensanti’ del mercato discografico, quelle che, nonostante la spesso devastante impotenza musicale, si arrogano ogni diritto di scelta fungendo da indesiderati intermediari tra ascoltatore e artista. Fino al paradosso che musicisti della tua portata possono rischiare di non arrivare mai al pubblico e alla storia…
Il nome scelto per il gruppo è sintomatico per quel periodo (l.O.U., ovvero «I Owe You», corrisponde a «cambiale). Ero senza una sterlina, non riuscivamo nemmeno a sopravvivere con la musica, sembrava non ci fosse nessuno interessato, qualunque cosa io facessi.
Sopravvivevo riparando strumenti altrui e vendendo i miei. Stavo per accettare definitivamente un lavoro in un negozio di strumenti.
Ci infilammo in uno studio, The Barge, costruito su un battello, per lavorare a quello che fu poi il nostro primo album completamente a mie spese, con i soldi ricavati dalla vendita della strumentazione accumulata negli anni precedenti.
Cinque giorni per registrare, e due per i missaggi, che fu quando vendetti l’ultima chitarra che avevo. E comunque non si trovò nessuno in Inghilterra interessato all’album.
Poi c’è stato il viaggio in America, organizzato da Sharon Sundell. E sei entrato in stretti rapporti con un certo chitarrista olandese…
Beh, con gli U.K. avevamo già partecipato a un tour americano, aprendo per Van Halen. Ricordo che Eddie veniva sempre al nostro soundcheck e anche durante il concerto era lì, in prima fila.
Durante il successivo periodo americano, in cui la band viveva praticamente nel salotto di Paul Williams (che nel frattempo era diventato il cantante degli I.O.U.) Eddie venne a sentirci al Roxy, e la serata successiva si unì alla band nel finale. Così entrai in contatto con Ted Templeman e dopo un po’ firmai per la Warner Bros.
Holdsworth in copertina negli anni 80 in USA
Pare che Eddie affermi – oltre che sei tu il numero uno nella sua lista – di poter suonare le cose che fai se solo si tira la chitarra un po’ più su, verso il torace…
(risatine) Sì, ho letto qualcosa del genere…
(ridacchiando) Perché sghignazzi?
Guarda, Edward è un grosso talento naturale, innovativo, fa cose incredibili con quella chitarra. Nel rock. Ma se deve suonare su due accordi… diciamo che non è il suo genere, ecco (ancora risatine).
Con la Warner ci fu subito un equivoco: io intendevo lavorare con la mia band e loro volevano un gruppo di superstar. Templeman si impuntò nel rifiutare Paul Williams…
Il che fu piuttosto scabroso, visto che i testi erano suoi, così come la collaborazione alle linee melodiche del cantato. Ma… è vera la storia che Edward voleva suonare nel tuo album e…
Sì, e io non ho voluto, mi sembrava onesto non sfruttare il suo nome. Non volevo che fosse il nome Van Halen ad attirare il pubblico, così rifiutai e dissi che semmai se ne sarebbe parlato sul secondo album.
Da quel momento tutto crollò, non si riusciva a trovare Eddie e nemmeno Ted, per non dire che in realtà servivano entrambi per continuare a registrare. Dopo mesi di attese e rinvii, decisi di rinunciare, e allora mi dissero di finire l’album per conto mio. Ma sempre in mezzo a difficoltà e controlli di ogni tipo. Volevano una cosa commerciale, immagino.
Quel disco, che è poi uscito col titolo Road Games, è costato quasi 150.000 dollari, che naturalmente dovevano essere detratti dalle mie percentuali: sto ancora pagando, credo. Poi ho fatto due dischi con Enigma (Metal Fatigue e Atavachron), che però non vennero promossi in alcuna maniera. E questo ultimo, Sand, esce con la Relativity Records.https://www.youtube.com/embed/IcPbmPM7epY?feature=oembed
Hai dichiarato che il sound della chitarra, almeno all’inizio, non ti soddisfaceva proprio…
Vero. Poi ho sentito Eric Clapton e per la prima volta ho sentito quel sound, con l’amplificatore usato intensivamente in quel modo. Ha un’affinità col suono del violino, che però è uno strumento troppo difficile. Per me rimane solo un hobby. Ultimamente mi ero stancato del sound chitarristico, siamo arrivati al punto in cui più o meno tutti si somigliano.
Tranne eccezioni tipo Eric Johnson, Scott Henderson, Frank Gambale… so che apprezzi molto questi tre ragazzi… Ma parlavamo di ricerche sonore… e così sei approdato al SynthAxe…
Sì, che da quel primo concerto al NAMM show dell’85 ho usato in maniera intensiva, oltre che dal vivo, anche su Atavachron e sull’ultimo Sand. E recentemente ho aggiunto un breath controller, che mi permette finalmente di comandare il suono col fiato.
È lo strumento giusto per me: non sono mai stato un fan della filosofia Pitch-to-Voltage che io ho ribattezzato Pitch-to-Glitch, per via degli inconvenienti dovuti alla trasduzione del segnale, anche se questa tecnologia è stata usata egregiamente da gente tipo John McLaughlin e Pat Metheny.
Ho ancora molto da studiare. Sto lavorando sulla sintesi per personalizzare i suoni che uso. Finora l’ho trattato come una chitarra e proprio per allontanarmi dalla sensazione di avere una chitarra in mano attualmente lo utilizzo con sei corde SI identiche. Questo strumento ha comunque in qualche modo migliorato anche la mia tecnica sulla chitarra in generale.
Allan Holdsworth con il SynthAxe nel 1987
Allan, pensi che potresti mai abbandonare completamente la chitarra per il SynthAxe?
No, non è una sostituzione, è un’integrazione.
Se una riserva mi posso concedere sulla tua musica è che a volte sembra troppo intellettuale, scientifica. lo me lo sono spiegato in parte col fatto che stai lavorando su un linguaggio totalmente nuovo, insolito, inascoltato e quindi difficile da recepire. E in parte ho notato che non cadi mai sul tiro di tipo “negro”, il “groove”, per capirci. È una scelta?
La musica per me deve trattare le emozioni, non è una scienza. Ma non riesco a sopportare il batterista che si stende sul groove.
Mi piacciono quelli che suonano, tipo Chad Wackerman… è fantastico, non si ferma neanche se gli spari e non sgarra mai, anzi, se vado fuori io devo rincorrerlo perché lui non mi verrà mai dietro.
È un sequencer, pronto però a tutta una serie di variazioni.
E Tony Williams, che mi trascina totalmente quando suona, mi coinvolge, è magico. Mi succede anche con musicisti come Keith Jarrett e Michael Brecker.
Ma qual è stata la tua impostazione di partenza, per raggiungere risultati di sonorità così insolite?
L’originalità, evitando accuratamente di imitare qualcuno.
È per questo che non ti si sente quasi mai su un fraseggio tradizionale, tipo rock-blues. Ma non lo usi nemmeno a casa, rilassato sul divano?
No, anche lì preferisco sperimentare.
Allan, cosa significa per te “suonare meglio”? Dov’è il punto in cui sei completamente soddisfatto?
Non c’è. Non lo sarò mai. Se sei soddisfatto, allora quello è il momento di fermarti. Non c’è un momento in cui posso pensare di potermi fermare.
L’articolo completo è stato pubblicato in origine su Chitarre n.18 del 1987. Per acquistarlo in formato digitale contattare [email protected].
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