Senza considerare Screenplay, selezione dedicata alle colonne sonore, Bird Dog Dante è solo la terza uscita da solista di John Parish. Una discografia parca, quindi, per uno dei musicisti più significativi degli ultimi trent’anni. È quasi superfluo, infatti, rammentare le sue esperienze al fianco di PJ Harvey.
È con lei dagli Automatic Dlamini all’epocale To Bring You My Love, dai due album cofirmati nel 1996 e 2009, Dance Hall At Louse Point e A Woman A Man Walked By, al nuovo corso sociale di Let England Shake, capolavoro, e The Hope Six Demolition Project, durante il cui tour il multistrumentista inglese ha vestito gli impegnativi panni del direttore di una nutrita all star band.
Per non dire della sua esperienza come produttore, ai servigi fra i tanti di Aldous Harding, Eels, Nadine Khouri, 16 Horsepower, Giant Sand, Tracy Chapman, Jenny Hval, Rokia Traoré, Cesare Basile, Nada… C’è bisogno di proseguire?
John Parish 'Bird Dog Dante' Album Trailer from Thrill Jockey Records on Vimeo.
Le precedenti mosse in proprio, risalenti rispettivamente al 2002 e 2005, avevano già segnato dei progressi: rispetto a How Animals Move, interamente strumentale a parte un brano, “Airplane Blues”, interpretato dalla stessa Harvey in tonalità da Patti Smith, Once Upon A Little Time vedeva per la prima volta il diretto interessato al microfono e segnava la nascita di un vero e proprio gruppo, composto dai fidati Jean-Marc Butty, Marta Collica e Giorgia Poli, ai quali si è poi unito in pianta stabile Jeremy Hogg.
È dal supporto di questi ultimi che riparte Parish in Bird Dog Dante, che ci sentiamo già di decretare il miglior lavoro a sua firma a oggi, in grado di sposare il suo talento più tradizionale al songwriting con la sua più ardita lungimiranza sperimentale, in sintonia con le sue partiture per il grande schermo (si sentano in quest’ultimo caso le orientaleggianti “Let’s Go” e “Kireru”, oppure i malinconici, disturbati soundscape attorno al pianoforte di “Les Passé Devant Nouse” e “Carver’s House”, in palese omaggio allo scrittore statunitense).
Tirando le somme c’è la solita attitudine elegante e pacata, da gentleman del pentagramma, c’è una forma-canzone che tocca il folk così come l’alt-rock, il blues e il jazz, ci sono azzardi trip hoppy di post-ambient all’avanguardia.
L’ascolto è una meraviglia che sorprende: dal mood bristoliano dell’iniziale “Add To The List al post-rock westernato dai vocalizzi angelici di “The March”, da una “Type 1” chitarristica, minimale e crepuscolare, un po’ in Thurston Moore style a una “Rachel” da club fumoso, con tanto di trombone e la succitata Harding come ospite al controcanto nel ritornello, sino al rito sciamanico della desertica “Buffalo” e all’indie rock conciso e persino orecchiabile della conclusiva “The First Star”.
Poi c’è “Sorry For Your Loss”, in duetto con la divina Polly Jean, vibrante, spontaneo ricordo folk-rock del comune amico Mark Linkous, suicida nel 2010 in cerca di “a better ride”, con il quale un tempo entrambi collaborarono nell’imprescindibile “It’s A Wonderful Life” degli Sparklehorse: una roba che con grande semplicità dà i brividi, mentre la fiamma si spegne, “il sole non era mai stato più freddo”.
La recensione di Elena Raugei è pubblicata sul Mucchio n. 767 in edicola nel mese di giugno 2018.
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