Nel giorno della festa della donna quale occasione migliore per una chiacchierata con la batterista e compositrice Cecilia Sanchietti sul suo nuovo album solista e sui problemi che oggi incontra sul suo lavoro, una musicista che ha scelto di esprimersi attraverso uno strumento ancora da troppi ritenuto erroneamente “per soli uomini”.
La batterista e compositrice Cecilia Sanchietti ha da poco iniziato a promuovere in giro per l’Italia, ma con importanti tappe in Europa, il suo nuovo album, il secondo da leader. La terza via. The Third Side Of The Coin (Blue Jazz BL3458) è un gran bel disco di jazz contemporaneo, un album che colpisce per garbo ed eleganza, dal suono morbido e avvolgente, assai ben suonato da Cecilia e dai suoi bravissimi compagni di viaggio (Pierpaolo Principato al pianoforte e Marco Siniscalco al basso elettrico, ai quali si aggiunge l’ospite Nicolas Kummert al sax tenore).
Un album che cattura sin dal primo ascolto, che scorre liscio e senza asperità, ma che a un esame più approfondito svela non poche sorprese e una sorprendente ricchezza ritmica.
Come nasce il titolo del tuo nuovo disco?
Il titolo nasce da un incontro con Enzo Samaritani, il boss del Teatro Arciliuto, di circa un anno e mezzo fa: ero lì per una serata di presentazione del mio disco precedente e lui mi ha letto una sua poesia, intitolata appunto La terza via, che parla della qualità, dell’andare a fondo alle cose non accontentandosi di scelte superficiali, ma facendo quelle che ti rappresentano veramente. Era un periodo che sentivo questa cosa dentro, che riflettevo sul coraggio necessario a fare certe scelte, e a poco a poco partendo da quelle riflessioni ho creato questo progetto.
E il sottotitolo, The Third Side of the Coin?
Spesso, soprattutto in ambito musicale, ci troviamo di fronte a due alternative, nessuna delle quali ti rappresenta: o ti adegui a un sistema che non senti tuo, o molli. Ma c’è il terzo lato della medaglia, ossia la possibilità che ti inventi qualcosa, che è quanto ho cercato di fare io con questo disco. Ho cambiato completamente ambito, ho cercato un’etichetta estera, un ospite straniero, canali diversi… Avevo delle cose da dire, anche dal punto di vista compositivo, e ho creato le condizioni per poterlo fare.
Ascoltando l’album, non lo si direbbe affatto opera di un/una batterista. Che strumento usi per comporre?
Il pianoforte, anche se non sono una pianista, ma studio composizione da quattro o cinque anni.
Come nascono i tuoi brani?
In genere nasce prima la parte melodica; spesso si tratta di ‘ritmi cantati’, su cui poi costruisco la parte armonica. Devo dire che i pezzi che mi sono usciti meglio sono quelli che non ho elaborato in tempi troppo lunghi, che mi sono venuti di getto. Perché poi sulla parte armonica ti ci puoi ‘incastrare’: magari finisci per scrivere una cosa più giusta dal punto di vista delle regole, ma meno interessante e spontanea.
Per questo disco, ovviamente, ho avuto un grandissimo aiuto in primis da Pierpaolo Principato e anche da Marco Siniscalco. Pierpaolo ha anche scritto un brano bellissimo, appositamente per questo album: ho pensato molto ai temi da trattare e volevo un pezzo che parlasse del coraggio di guardarsi dentro e della forza di tirar fuori qualcosa di nuovo che però è già dentro di te (il brano in questione è “Emerging Lands”).
L’album si chiude con “Innocence”, un brevissimo omaggio a Keith Jarrett.
Sì, un brano dedicato ai miei nipoti, ma che vuole essere anche un riconoscimento a chi ha il coraggio di continuare a giocare. Poi c’è anche “Hang Gliding”, un omaggio a Maria Schneider, per parlare delle donne che compongono, perché anche lì c’è una grossa difficoltà a farle emergere.
Un brano che cambia in continuazione tra cinque e sei quarti, ma in maniera musicale…
Questo ci porta a parlare più nello specifico di temi batteristici. Il tuo modo di suonare è assolutamente funzionale alle composizioni: un drumming ‘minimalista’ anche nel mix, volutamente non in primissimo piano: immagino sia una scelta estetica precisa…
Assolutamente. Per me la cosa importante, quando compongo e quando suono, è parlare di qualcosa e ‘arrivare’ a chi ascolta, che si tratti di esperti o non esperti. Non mi interessa fare un album per gli ‘esperti’, né una cosa troppo centrata su me stessa.
Per me è essenziale quella “funzione democratica della musica” di cui scrive Ron Savage nelle bellissime note di copertina. Tutto dev’essere funzionale al senso della musica, anche il ruolo della batteria.
Molti i tempi che girano intorno al tre, tanti gli even eights e un ricorso assai parsimonioso alla classica scansione swing: anche questa è una scelta estetica?
Sì, tu senz’altro ricorderai che mi sono avvicinata al jazz con il ‘tradizionale’, ma a un certo punto ho capito che lo Swing mi rappresentava di meno, mi dava minori possibilità espressive, quindi ho studiato – da sola, a parte qualcosa fatta con Fabrizio Sferra – e gradualmente mi sono appassionata a questo mondo degli even eights che all’inizio neanche mi piaceva.
Se poi ci metti la mia passione per i tempi dispari, cinque, sette, tre, i passaggi da uno all’altro, capirai… Anche il mio primo disco conteneva qualcosa del genere, ma tendeva un po’ più all’etnico.
Restando sull’aspetto più strettamente tecnico: hai una routine quotidiana? Cosa ti piace studiare, se ne hai ancora il tempo?
La tecnica giornaliera, i rudimenti, quella ci sta sempre. Ultimamente sto lavorando molto sui tempi dispari e sull’improvvisazione, giocando sul concetto ‘circolare’ del tempo, creando delle melodie suonando. Suono molto sui pezzi, anche perché devo creare le parti di batteria che devo mettere nei brani che compongo. Il mio è molto uno studio in itinere.
Quali sono i tuoi batteristi di riferimento in questo periodo?
Christiensen, Ballard, DeJohnnette, Jojo Mayer. In genere non mi piacciono quelli che usano set troppo grandi, anche in questo sono ‘minimalista’: cassa, rullante, un ride e hi hat bastano e avanzano, e in questo Jojo è formidabile, perché riesce a costruire delle melodie con poco e niente. Poi Stewart Copeland, uno con una mente elegante applicata a un altro genere.
Il numero delle donne che suonano la batteria è in crescita, ma ancora troppo scarso. E c’è sempre in agguato il retropensiero, il pregiudizio per cui, a parità di preparazione, una donna è facilitata rispetto a un uomo.
Siccome suoni la batteria, per poterlo fare devi dimostrare di essere addirittura più brava di un uomo. Se invece vai avanti, significa che lo fai solo perché sei donna. Questa cosa è, incredibile, ci combatto in continuazione e come me tante donne che suonano strumenti a fiato o il contrabbasso, strumenti considerati ‘maschili’. Non sono una femminista, mi appello piuttosto a certe dinamiche sociali. Per spiegare questo fenomeno parlo sempre delle partite di calcetto…
Calcetto?
Sì: gli uomini fanno molto cameratismo. Come accade quando devono vedersi per giocare a calcetto, se si vogliono incontrare per suonare lo fanno, senza stare troppo a vedere chi suona meglio o peggio. Questa cosa con una donna non succede, perché la donna è l’elemento esterno che crea ‘problemi’ all’interno del gruppo, è portatrice di una ‘diversità’ che è scomoda.
Gli uomini non ci si sanno rapportare, si crea un disagio, c’è sempre la dinamica del “ci provo o non ci provo”. Siccome l’uomo preferisce stare comodo, per evitare disagi ti evita.
Così per le ragazze le opportunità di crescere musicalmente si riducono, per farlo devi creare i tuoi progetti, tra mille difficoltà. L’ulteriore problema è che di questa situazione non si parla: per un progetto europeo che sto seguendo ho cercato in Rete dei dati in proposito, ma esistono pochissimi studi; il fatto che non esistano dati ufficiali porta a pensare che non esista un problema in tal senso, e quindi non viene affrontato, non se ne parla.
Che ne pensi dei concorsi di batteria dedicati alle donne?
Se ancora si sente l’esigenza di limitare la partecipazione alle donne, evidentemente c’è un problema: come reagirebbe la gente all’idea di un festival per batteristi uomini? Evidentemente non c’è parità, altrimenti ci sarebbero festival per batteristi. Punto.
E il consenso degli altri batteristi ti interessa?
No, ma quando c’è fa bene. Siamo persone con le nostre debolezze, e ricevere degli stimoli positivi dall’esterno ti aiuta a credere più in te stesso. Siamo esseri umani ‘sociali’, per cui un ritorno positivo da parte di quanti fanno il tuo stesso mestiere un po’ ti aiuta. Non è una cosa che ricerco, né quando suono né quando compongo, perché provo a esprimere quello che mi rappresenta e perché se non fai così comunque sbagli. Se ti preoccupi solo di quello che pensano gli altri, la tua terza via non la troverai mai.
Ma questo supporto da parte dei colleghi lo avverti?
No, è una cosa molto dura da ottenere da parte dei batteristi e dei musicisti italiani. La mia non vuole essere una denuncia, ma una constatazione. Mi fa riflettere il fatto che invece stanno arrivando tanti consensi dall’estero: ricevo mail da musicisti che incidono per la mia stessa etichetta di Chicago, che si vanno ad ascoltare l’album e mi contattano per farmi i complimenti sia per le composizioni sia per il drumming…
Quali i tuoi progetti più immediati?
La promozione dell’album, con concerti in Italia e all’estero iniziati proprio a marzo: suonerò a Berlino, Bruxelles e al Leuven Jazz Festival e a maggio sarò in concerto anche qui a Roma.
Infine, raccontaci qualcosa sulla tua strumentazione: batteria?
La mia Gretsch Renown, set assolutamente jazz.
Bacchette?
Promark 7A e Vic Firth 8d; spazzole Vic Firth.
Piatti?
Ho da poco raggiunto un accordo con Valmusic Pro e sto usando con reciproca soddisfazione dei bellissimi piatti Pasha: il mio set si compone di due ride, un 21″ Millennium Series e un 22″ Clatter Series, di un hi hat da 14″ Desert Glove e di uno splash da 10″, sempre della serie Desert Glow.
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