Lo scritto potrebbe finire qui, non ci sarebbe molto altro da dire di fronte a un musicista di questo valore, ma è bene spendere giusto un paio di parole per quei pochi che ancora dovessero fare la sua conoscenza.
John McLaughlin, cognome che per noi italiani diventa un vero scioglilingua, è un chitarrista che, come molti della sua epoca, ha avuto una formazione molto varia, sia tecnica sullo strumento che musicale in senso lato.
Cresciuto nell’Inghilterra del dopoguerra, vede arrivare da oltreoceano le influenze del blues, del jazz e dello swing, da cui è subito affascinato. Contemporaneamente, è anche il calore del flamenco andaluso a conquistarlo.
L’unione di tutte queste influenze lo fa crescere come un chitarrista dallo stile unico e difatti non a caso diventa uno dei primi e massimi esponenti della fusion, che come indica il nome è appunto una fusione di generi e stili diversi.
Gli anni ’60 sono il trampolino di lancio della sua carriera e lo è soprattutto una città, New York, e un musicista, un padre del Jazz, Miles Davis.
Davis, si sa, è sempre stato un leader attento a circondarsi dei musicisti più interessanti in circolazione. Il suo “talent scouting” era sempre mirato a espandere i propri confini musicali, a realizzare ciò che aveva in mente, materia sempre nuova che sorpassava, evolveva o addirittura cambiava totalmente volto rispetto ai lavori precedenti.
Così, in un periodo in cui è affascinato dagli ascolti dei nuovi chitarristi rock (Jimi Hendrix in primis) e funk (Sly and the Family Stone), Miles decide di reclutare al suo fianco il giovane John, che in quel momento è in America per unirsi al nuovo gruppo di Tony Williams, i Lifetime.
McLaughlin si trova catapultato in una superband, tanto per fare qualche nome oltre a Davis: Wayne Shorter, Herbie Hancock, Chick Corea, Joe Zawinul, Dave Holland e lo stesso Tony Williams.
È così che incide con il gigante del jazz due album capolavoro: In a Silent Way e Bitches Brew.
Uno dei brani di quest’ultimo disco è intitolato proprio “John McLaughlin”, una sorta di breve jam in cui il chitarrista si lascia a improvvisazioni fuori da qualsiasi schema.
Nel 1971 oramai McLaughlin è un musicista maturo e affermato ed è tempo di pensare a un progetto in proprio. Le sue idee incontrano quelle di un altro grande session man, Billy Cobham, conosciuto proprio nelle registrazioni di Bitches Brew, in cui suona sul brano “Feio” (presente solo nella ristampa in cd del 1999) insieme Jack DeJohnette (per chi non lo sapesse in tutto l’album le batterie sono sempre due, separate nel mix a destra e a sinistra, in questo caso Cobham è a sinistra).
I due fondano la Mahavishnu Orchestra, che convoglia tutta la loro esperienza musicale alle influenze provenienti dall’India e in particolare acquisite da McLaughlin con specifici studi al seguito del guru Sri Chinmoy. È quest’ultimo a suggerire il nome “Mahavishnu”, dal nome della divinità vedica Vishnu (trad. “Grande Vishnu”).
Il loro primo disco (consigliatissimo) The Inner Mounting Flame è una vera e propria rivelazione. Non si era sentito niente del genere fino ad allora, un connubio di abilità tecniche e nuovi linguaggi musicali straordinariamente efficace, capace di affascinare e stordire allo stesso tempo. Viene segnato un nuovo solco nella storia della musica e ancora oggi il disco è uno degli ascolti obbligatori per quanto riguarda il genere fusion (comunque, è obbligatorio per chiunque ami la musica).
Da allora John McLaughlin è consacrato uno dei giganti della chitarra. Non staremo qui a ricordare le innumerevoli collaborazioni e progetti, anche se è impossibile non accennare almeno a quel Friday Night in San Francisco registrato con Paco de Lucia e Al Di Meola nel 1981, altro album che non può mancare nella collezione di un musicofilo.
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