Il verdetto del coroner è lapidario: “decesso dovuto a intossicazione acuta di eroina e morfina”.
Da pochi mesi, Tim Hardin era tornato a vivere negli Stati Uniti, a Seattle, dopo un lungo soggiorno in Inghilterra, per poter stare vicino al figlio Damion avuto dal matrimonio con Susan Moher, suo più grande amore nonché musa ispiratrice, che Tim aveva sposato nel 1966.
Alla donna e al figlio Tim aveva dedicato l’intero album Suite For Susan Moore and Damion – We Are-One, One, All In One.
Nella città americana Hardin era riuscito a vincere l’ennesima battaglia contro una tossicodipendenza che durava da oltre dieci anni, ma la droga aveva ormai minato in modo irreparabile il suo fragile sistema psicologico: era impossibile stargli vicino, si comportava in modo violento e insostenibile.
Fisicamente, poi, era irriconoscibile persino per i suoi amici di vecchia data: del magro e fragile ragazzo di un tempo non c’era più traccia.
Adesso Tim Hardin era sciupatissimo, calvo e sovrappeso. Era però riuscito a tornare in studio di registrazione con il suo vecchio produttore Don Rubin e aveva inciso due brani per un possibile nuovo disco. Per questo si era trasferito a Los Angeles.
In Inghilterra c’era andato perché il servizio sanitario locale permetteva ai tossicodipendenti una dose di eroina gratuita. Qui si era anche riconciliato brevemente con la moglie Susan, ma poi era giunto al punto di vendere tutti i diritti sulle sue canzoni per poter acquistare sempre più droga.
Il suo songbook comprendeva brani epocali come “If I Were A Carpenter” e “Reason to Believe”, portate al successo da Johnny Cash, Bobby Darin o dagli Small Faces. Successi straordinari ma soprattutto canzoni bellissime, senza tempo.
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