La sua chitarra è da 25 anni un mezzo per sostenere le battaglie di minoranze ed emarginati, nella convinzione che la musica possa essere qualcosa di più che un semplice mezzo di svago. Nel 1999 usciva il terzo album dei Rage Against the Machine con un titolo che è già un manifesto politico, The Battle of Los Angeles.
Dopo due album arrivati allo status di Platinum grazie alle notevolissime vendite in tutto il mondo, la band americana viveva il suo primo ruggente decennio, prima di sciogliersi, riformarsi e disperdersi di nuovo seguendo l’irrequietezza del cantante Zack de la Rocha.
A fine anni novanta, la miscela esplosiva di rock e rap dei RATM era sotto l’occhio di tutti, con particolare attenzione da parte delle forze dell’ordine americane.
La carriera di Tom Morello lo porterà dagli Audioslaves con il compianto Chris Cornell alla collaborazione con Bruce Springsteen fino agli odierni Prophets of Rage, senza mai perdere il filo del suo impegno sociale e politico, o mettere in secondo piano la passione per la chitarra.
Pubblicata su Chitarre n.166 nel dicembre 1999, l’intervista è firmata dal nostro Alberto Lombardi, all’epoca ancora lontano dal diventare una star nel mondo della chitarra acustica, ma già stimato musicista e, all’occorrenza, volenteroso giornalista.
Nel corso della conversazione Morello non si fa pregare nel sottolineare le forti motivazioni del suo impegno musicale, la spinta iniziale dei Sex Pistols e le tante ore dedicate in seguito allo studio dello strumento.
I Rage sono stati la tua prima band?
Ho suonato con tante altre band prima. I Rage sono stati i primi che mi hanno dato la possibilità di combinare la mia attività di musicista con il desiderio di attivismo sociale, le due cose prima erano separate.
Come è cresciuto il tuo interesse per il sociale? Nella band, a scuola?
Negli Stati Uniti, un nero è necessariamente coinvolto in certe tematiche sociali. Già da piccolo, quando ti accorgi dei nomignoli che gli altri bambini ti affibbiano ti rendi conto che qualcosa non va. L’esposizione al razzismo è quotidiana. Comunque anche mia madre era coinvolta nella lotta per i diritti civili, ma il vero interesse è nato quando, crescendo, ho provato sulla mia pelle certe umiliazioni.
Alle superiori ho conosciuto vari movimenti sociali come le Black Panthers o gli Hunger Strikers e lavoravo a un giornale underground che mi ha aiutato a sviluppare le mie idee. All’università ho fatto parte del movimento anti-apartheid e sono rimasto anche coinvolto in alcuni scontri fra la polizia e dimostranti contro il Ku-Klux-Klan.
Questo è quello che io chiamo politica di strada, imparare direttamente quello che hai letto sui libri. Con i Rage siamo stati a contatto con molti veri, importanti attivisti che ci hanno aiutato a crescere e a cui noi abbiamo prestato il veicolo della musica per pubblicizzare le loro idee.
Quindi credi che far parte di una band sia un buon sistema per divulgare le proprie idee politiche e sociali?
Assolutamente sì! Siamo in grado di urlare quello che pensiamo a milioni di persone, parlarne nelle interviste o scriverlo nei booklet dei cd.
Vi rivolgete anche al pubblico più giusto, quello dei ragazzi in piena ‘crisi sociale’. E soprattutto non siete una di quelle band che strillano e basta, ribellandosi scioccamente a ogni regola. Combattete il sistema dall’interno, sfruttando una grossa etichetta. È questo il piano?
All’inizio non c’era nessun piano. Quando abbiamo formato la band io credevo che musica e politica fossero distanti fra loro. Eravamo presi dalla ricerca di serate o di un contratto discografico, ma siamo stati felicissimi nel renderci conto che i nostri fan erano intelligenti, sensibili e coinvolti nelle nostre idee, e non solo nel rock’n’roll.
Avete avuto svariati problemi per le vostre convinzioni. Come quella volta al Saturday Night Live. Vuoi raccontarci com’è andata?
Dovevamo fare lo show e l’ospite della trasmissione era un milionario candidato alla presidenza. Pensarono che fosse divertente mettere insieme questi due opposti, ma durante le prove abbiamo messo le bandiere USA appese al contrario sugli ampli, come facciamo sempre: ci hanno detto che non potevamo, a causa del candidato, degli sponsor.
Le abbiamo messe giù, ma trenta secondi prima di andare in trasmissione le abbiamo rimesse a posto. Allora la sicurezza ci ha aggredito e le ha strappate via. Abbiamo suonato un pezzo in diretta e, sebbene ce ne dovesse essere un secondo, ci dissero che eravamo stati cattivi e non avremmo suonato più.
Allora Tim Bob (il bassista dei Rage) ha preso le bandiere e le ha tirate addosso al candidato nel suo camerino: in un attimo siamo stati cacciati fuori dall’edificio dai servizi segreti.
Oggi vi hanno cacciati dall’edificio, dieci anni fa quelli della CIA vi avrebbero presi a calci…
Oggi ci buttano solo fuori a calci: è un miglioramento!
Come ti sei avvicinato alla musica e alla chitarra?
Ero un grande fan dell’hard rock. Dai Kiss ad Alice Cooper ai Led Zeppelin, Black Sabbath e tutta quella schiera; mi piaceva la musica aggressiva. A tredici anni ho comprato una chitarra, ma non riuscivo a suonarla.
Volevo fare i riff degli Zeppelin, ma avevo una chitarra da due soldi ed ero incapace, quindi ero anche molto frustrato e l’ho lasciata marcire nell’armadio per quasi quattro anni.
Poi ho comprato un disco dei Sex Pistols e qualche ora dopo suonavo con una band. Erano fantastici perché combinavano l’energia che mi piaceva con la facilità d’esecuzione e in più era musica impegnata; i testi avevano un significato che andava oltre i soliti draghi e demoni. I Pistols mi hanno spinto verso la chitarra.
La spinta verso la serietà?
Un amico mi aveva consigliato di studiare un’ora al giorno e io lo facevo religiosamente, ottenendo dei miglioramenti visibili. Allora ho pensato: “e se studiassi due ore?”
E così diventarono due, poi quattro… e dico quattro, non tre e cinquantanove, neanche se avevo la febbre e un esame il giorno dopo.
Era un po’ maniacale, poco salutare! Poi diventarono otto ore, ma ero così motivato dai risultati che non sentivo la fatica.
Pensi che saresti stato un chitarrista diverso senza la militanza (è proprio il caso di dirlo) nei Rage?
Sicuramente. È stata l’influenza hip hop della band a darmi la spinta verso nuovi orizzonti, anche se abbiamo gusti differenti.
A me piacciono i riffoni ed è ciò con cui contribuisco al sound, perché penso che facciano saltare la gente ai concerti. Ci sono alcune altre cose che propongono i ragazzi della band per cui non sempre stravedo.
Siamo spesso più d’accordo sulle idee di testo che sulle canzoni, ma quello che fa il sound di un gruppo è proprio miscelare diverse personalità. Quindi io cerco sempre di suonare al mio meglio anche in momenti musicali che non mi fanno impazzire, perché so che saranno poi essenziali al risultato finale.
Questo poi mi spinge avanti creativamente, ponendomi in situazioni che da solo non potrei creare.
Per acquistare Chitarre n.166 in formato digitale e leggere l’intera intervista scrivete a [email protected].
Aggiungi Commento