I ricordi si accavallano tra gli spezzoni dei videoclip, i giorni di scuola, quel doppio cd che passava da banco a banco e conquistava tutti. O almeno così è per chi scrive, per quella generazione che ha vissuto l’adolescenza negli anni ’90 e che, davanti agli ultimi colpi di coda del Grunge, aveva dannatamente bisogno di aggrapparsi a qualcosa che non includesse le parole “brit” o “boys”.
Fu così che irruppe Mellon Collie and the Infinite Sadness degli Smashing Pumpkins e davvero nessuno se lo aspettava.
“The world is a vampire” e poi quell’unione di basso e batteria martellanti che quasi faceva ballare la tv. Così mi ricordo di aver conosciuto questo album, da quel videoclip dai colori grigio-violacei in cui il protagonista, un Billy Corgan ancora capelluto, cantava con la sua band in questa sorta di miniera post-apocalittica (filone che trovava spazio in una vasta cinematografia negli stessi anni). Con quella maglietta “ZERO” che avremmo comprato tutti.
Il brano era “Bullet with Butterfly Wings” e una volta arrivato al ritornello mi aveva già catapultato verso il negozio di dischi.
Il 1995 era un anno strano, di cambiamento. Parlando della musica “dura” che aveva conquistato la mia generazione, che del metal ne aveva avuto abbastanza, l’amato/odiato In Utero dei Nirvana aveva già due anni sulle spalle e archiviato il brutto affare Cobain stavamo vedendo nascere una delle future più grandi rock band di sempre, i Foo Fighters.
I Soundgarden ci avevano deliziato con lo splendido Superunknown l’anno precedente, ma anche loro si preparavano a cambiare rotta col passato.
Gli Alice in Chains avevano registrato quello che poi si sarebbe rivelato l’ultimo album con Layne Staley. I Pearl Jam sembravano tenere botta, ma potevamo davvero continuare ad ascoltare musica proveniente da una sola città della costa ovest statunitense?
Altro si affacciava all’orizzonte. Il Brit-Rock (o Brit-Pop, vai a capirne la differenza…) di Oasis e Blur, il nuovo Punk capitanato dai Green Day (che avrei visto live a Firenze l’anno successivo); ma era soprattutto il rock alternativo a mettere radici più profonde, dai Radiohead, agli Skunk Anansie, ai Supergrass ecc.
Nello stesso anno aveva successo il rock patinato americano di Alanis Morrisette, a cui va comunque riconosciuto un indubbio merito (meglio lei delle sue innumerevoli cloni).
Insomma, era un anno un po’ strano, ma tutto sommato ce n’era un po’ per tutti.
Ma devo essere onesto, niente staccava a morsi le mie orecchie come quella “Bullet with Butterfly Wings” o come la fuzzosissima “Zero“.
Le sorprese una volta in negozio furono due: un album doppio, incredibilmente pieno zeppo di brani. Il costo dello stesso, che ad un adolescente come me fece tabula rasa di tutto ciò che avessi in tasca (non parliamo della versione 3LP, ancora oggi inavvicinabile).
Il disco è un concept, non per niente i due cd sono nominati Dawn to Dusk e Twilight to Starlight (in pratica, dall’alba, al crepuscolo, alla luce notturna delle stelle).
Si parte dalla title track, dalle note di pianoforte che tutto mi fanno pensare tranne che alla band che ho visto in televisione (avrò sbagliato nome della band mannaggia a me???). No, tranquillo. Ci vuol poco per ricredersi.
Arriva “Tonight, tonight” e lì capisci che hai appena fatto un acquisto che varrà ogni lira (sottolineo lira…) spesa per i prossimi 100 anni.
Per inciso, brano che è un capolavoro anche dal punto di vista del videoclip (ve ne abbiamo parlato qui).
La disamina dei brani ve la risparmio, mi sembra davvero anacronistico.
Forse ho personalizzato un po’ questo articolo, che magari avrebbe dovuto essere un Accadde Oggi un po’ più formale, sciorinante date, curiosità, tecniche di registrazione, fatti vari recuperati qua e là.
Ma ho pensato che a volte puoi parlare meglio partendo dalla pelle d’oca che hai sentito tu stesso in prima persona.
Perché tutte quelle mattine ad aspettare l’autobus alle 7.15 al freddo e alla nebbia, con “1979” nelle orecchie, per me restano incise più forte di quanto possa fare qualunque laser su questo album.
Quindi mi perdonerete se ricordo “quello di cui avevamo bisogno” in quei mesi.
Beninteso non tutto l’album può piacere. E la depressione latente è devastante (mai scena dei Simpson fu più azzeccata).
Ma resta uno dei capolavori degli anni ’90, anzi, del rock di sempre oltre che un coraggioso progetto di una band che, alla fine dei conti, poteva giocarsela anche più facile pubblicando la metà dei brani, con i singoli uno dietro l’altro.
Di quel coraggio avremmo ancora bisogno oggi.
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