Correva il 2004 quando al mondo del rock alternativo USA venne in mente di dedicare un album tributo a Daniel Johnston. Per l’occasione, al texano fu chiesto se desiderava collaborare con un musicista in particolare. Il buon Daniel – con un candore che affonda le radici in un altroquando impenetrabile – rispose: Paul McCartney.
Non è dato sapere se il baronetto sia mai stato interpellato, in ogni caso per The Late Great Daniel Johnston risposero ‘presente’ nomi di livello assoluto come Flaming Lips, Beck, Eels, Vic Chesnutt, Mercury Rev e, Tom Waits nientemeno. Un parterre de roi impressionante, rispetto al quale Daniel – vedi candore precedente – si dichiarò “abbastanza soddisfatto”.
Del resto, con la stessa flemma (“è stato molto carino”) si espresse a proposito di Kurt Cobain, il quale nei primi 90s non perdeva occasione per farsi fotografare con indosso la t-shirt di Hi How Are You?, cassetta realizzata da Johnston nel 1983 e considerata a ragione uno dei suoi capolavori.
Pensando alla vicenda di Daniel Dale Johnston, ti imbatti negli elementi tipici del Sogno Americano: l’outsider totale che emerge in virtù del puro talento, approdando dopo molte peripezie a un successo impronosticabile.
Ma Daniel non si è mai liberato dalle proprie ossessioni (l’amore per la fatidica Laurie, i deliri sci-fi, le tentazioni della carne), non ha mai smesso di lottare contro quei demoni interiori che come un novello Van Gogh – a cui pure è stato paragonato, data anche l’attitudine per le arti grafiche – lo hanno portato fin sull’orlo della pazzia definitiva.
Come accadde nel 1994, quando dall’ennesima crisi uscì quasi suicida e con un braccio rotto.
Personaggio che definire naif è poco ma che non puoi liquidare come folle se non in virtù di un cinismo grossolano, Johnston salì alla ribalta in un momento cruciale, quando cioè il primo sgomitare del grunge sembrava raccontare una rinascita rock brusca ancorché nostalgica, presto
però canalizzata negli implacabili meccanismi delle major, dai fatturati mai tanto stellari.
Una situazione che il suicidio di Cobain da una parte mise allo scoperto e dall’altra – paradossalmente
– contribuì ad alimentare.
Accanto
a un rock tornato potentemente mainstream si delinearono quindi, per una sorta di fisiologico contrappasso, scenari “alternativi” che segnarono un’epoca, aggrappati a quell’impasto
di immediatezza formale e anarchia espressiva che dimostrava la capacità residua di scovare angolazioni aliene ad altezza d’uomo.
Ecco dunque che Daniel, con la sua voce da bisturi giocattolo capace di scavare ferite che non rimarginano, col suo cabaret in bilico tra ironia, tragedia e inconsapevolezza, con le sue melodie luminose sorrette da un’impalcatura sonora come minimo precaria, appare sulla scena come un emblema e un faro, per ribadire a una generazione di musicisti rock – i cui nomi abbiamo già fatto e ai quali aggiungiamo quello di Mark Linkous – che è proprio in quella quota insopprimibile di stranezza e mancanza di controllo che il rock vive ed è vivo.
Alla luce di tutto questo, la notizia che per l’ormai cinquantaseienne è arrivato il tempo dell’ultimo tour testimonia qualcosa in più della stanchezza fisica e mentale di un uomo: sembra il tramonto di una modalità, di una prassi espressiva e delle possibilità ad essa legate. Sembra l’ennesima parola fine posta a sigillare una faccenda che non finirà mai di starci a cuore.
Stefano Solventi
In autunno, Johnston suonerà con le band che “ha influenzato”, direttamente nelle loro città. Ad esempio, suonerà con Jeff Tweedy a Chicago e con i Built To Spill a Portland e Vancouver.
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