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Paisley Underground, altri magnifici 6

Dalla cover story del numero 758 del Mucchio, dedicata ai Dream Syndicate.Oggi malefico tic collettivo, in passato la "nostalgia" è stata anche uno stimolo benigno all'interno della popular music per corsi e ricorsi storici a loro modo originali. Nel flusso di azioni/reazioni, il Paisley Underground apre il decennio d

Dalla cover story del numero 758 del Mucchio, dedicata ai Dream Syndicate.
Oggi malefico tic collettivo, in passato la “nostalgia” è stata anche uno stimolo benigno all’interno della popular music per corsi e ricorsi storici a loro modo originali. Nel flusso di azioni/reazioni, il Paisley Underground apre il decennio dei “revival” recuperando i Sixties subito dopo l’onda anomala del post-punk.

Una scena nel senso più vero del termine: un manipolo di musicisti ipnotizzati dagli anni 60 e dal suo caleidoscopio di suoni – folk, garage e psichedelici – svezzati dal punk sotto lo stesso sole della California; una comunità rafforzata dalla vicinanza geografica e dalla condivisione di band e progetti.

Paisley Underground, altri magnifici 6

Epicentro Los Angeles, ma con altre due città satelliti, Davis e Tucson (in Arizona). Più di un’affinità con l’idillio anni ’90 a nome Elephant 6, non fosse che i gruppi del Paisley, dopo una manciata di EP e qualche album, attirarono l’attenzione delle major che – come sarebbe accaduto poco più di un lustro dopo con il cosiddetto “American indie” – avrebbero rovinato la festa (almeno in molti casi).

Per prendere le misure, basti pensare che negli anni di “Purple Rain”, sua maestà Prince Roger Nelson ebbe un colpo di fulmine per il Paisley Underground, finendo col chiamare la propria etichetta Paisley Park e regalando molto più di qualche minuto di celebrità ad alcune delle band della scena.

Paisley Underground, altri magnifici 6

Di seguito, sei imprescindibili nomi di quella famiglia allargata, che avrebbe potuto includere anche il progetto Danny & Dusty (Steve Wynn e Dan Stuart dei Green on Red), Droogs, True West, Naked Prey, Game Theory, Thin White Rope e Giant Sand.

Bangles

Prima del biglietto vincente della lotteria regalato da un insospettabile fan (sempre lui, Prince, autore di “Manic Monday”), prima del singolone da milioni di copie, tra ’81 e ’84 le Bangles sono uno dei gruppi del nucleo iniziale del Paisley Underground.

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Originariamente The Bangs (chi ha detto Electric Prunes?), cugine neanche troppo alla lontana delle Runaways, le sorelle Vicki e Debbi Peterson, Susanna Hoffs con l’aggiunta di Michael Steele (già bassista nella band di Joan Jett) professavano il loro credo Sixties tra melodie beat e armonie vocali beatlesiane.

Qualche sfumatura garage agli esordi, e poi già nel 1984 un debutto sulla lunga distanza col marchio Columbia (All Over The Place) che comunque, rispetto all’exploit del successivo Different Light, mantiene ancora legami con la scena.

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Green On Red

Originari di Tucson, dove la loro prima vita è a nome Serfers, ma presto (nel 1980) trapiantati a Los Angeles, i Green On Red hanno il suono caldo delle radici americane, ma pure la devianza acida e doorsiana della California.
Dopo un primo EP omonimo pubblicato dalla Down There di Steve Wynn, nel 1983 Gravity Talks è uno dei dischi manifesto dell’era Paisley.

Paisley Underground, altri magnifici 6

Ricami di organo, strutture circolari, Velvet Underground e Byrds sempre nel cuore e l’interpretazione vocale un po’ eccentrica di Dan Stuart: l’istantanea su una West Coast afosa e senza tempo, familiare eppure vagamente distorta.
Quando dal successivo Gas Food Lodging del 1985 subentrano i riff di Chuck Prophet, la band intraprenderà un percorso più ordinario e classic rock.

The Long Ryders

Country, chitarre jingle-jangle ed echi college-rock, sfumature psichedeliche sull’asse Buffalo Springfield/Byrds, divagazioni tex mex e copertine decisamente roots tra boschi e cascine: i Long Ryders di Sid Griffin compongono così il loro omaggio ai Sessanta e all’America (non bastasse il riferimento a I cavalieri dalle lunghe ombre di Walter Hill come biglietto da visita).

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Formati nel 1981, con Native Sons (1984) si pongono come il lato più tradizionale del Paisley, quello influenzato (anche) da Gram Parsons e dove c’è spazio per strumentazione decisamente poco urbana (banjo, mandolino, steel guitar).
Attivi fino all’87, riapparsi negli anni attraverso varie reunion, anche loro a metà Ottanta finiranno sotto l’ala protettiva di una major (la Island).

Opal

Anello di congiunzione tra la breve esperienza a nome Clay Allison e il culto immortale dei Mazzy Star, gli Opal sono una delle varie filiazioni incrociate del Paisley, formata intorno al 1983 da Kendra Smith e David Roback – rispettivamente fuoriusciti da The Dream Syndicate e Rain Parade.

Psichedelia allo stato puro, ma con un poderoso impianto rock, notturno, acido e distorto, incrociato a colate di folk e blues roventi, dal potere magnetico e vagamente sinistro.
Chitarre sature e sensuali, espresse in un unico – ma memorabile – album, Happy Nightmare Baby, stampato niente di meno che dalla SST nel 1987. 

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Durante il tour, la Smith lascerà la band per essere sostituita da una altrettanto fascinosa e giovanissima Hope Sandoval.
Nell’89 gli Opal diventeranno i Mazzy Star e il resto è storia.

The Rain Parade

Dovendo scegliere i più psichedelici tra gli psichedelici, la scelta ricadrebbe certamente su di loro. I Rain Parade sono il suono magico, ipnotico e selenico del Paisley Underground.
Un folk lisergico e scintillante, un sogno dilatato e confortevole, il ponte perfetto tra Byrds e Television.

Paisley Underground, altri magnifici 6

Formatosi nell’81 a L.A., il quintetto composto dai fratelli Steven e David Roback, esordisce nell’83 con una pietra miliare della neopsichedelia intitolata Emergency Third Rain Power Trip: melodie perfette, stratificazioni vocali, tastiere acide avvolgenti, chitarre jingle-jangle e atmosfere vagamente esotiche.

Successivamente David Roback lascerà la band per formare gli Opal, gli album successivi non saranno dello stesso livello ma l’incantesimo di questo esordio rimarrà intatto per sempre.

The Three O’Clock

Forse per aver coniato l’originale espressione di “Paisley Underground”, più probabilmente per la sensibilità pop della formazione di cui era bassista e voce, Michael Quercio e i suoi Three O’ Clock furono l’altro gruppo della scena a entrare nelle grazie di Prince, uscire per la sua etichetta e frequentare party (uno, celebre, sicuramente) circondati da nomi del calibro di Mavis Staple e George Clinton.

Paisley Underground, altri magnifici 6

Nata a L.A. come The Salvation Army, la band accantona l’iniziale matrice punk per un suono più dolciastro, spesso barocco e ricercato, venato di sintetizzatori e talvolta abbandonato a planate garage (“Jet Fighter”).
Esordio del 1983, Sixteen Tamburines, prodotto dall’ex Sparks Earle Mankey, tra melodie Sixties appiccicose, beat accattivanti e cover dei Bee Gees (!).

Chiara Colli