Il redentore di anime non ha ancora incontrato i Judas Priest. La band britannica, reduce dal successo del World Epitaph Tour col quale avrebbe dovuto congedarsi dai suoi fan per sempre, ci ha forse ripensato (per l’ennesima volta); questi dietrofront non sono rari nel ristretto circolo dei mostri sacri del Rock. Kiss, Motley Crue, Scorpions, come i già citati Priest, sembrano averci preso gusto nel far tribolare i propri affezionatissimi fans con la diffusione ciclica di proclami di scioglimenti “definitivi”, che poi definitivi non sono mai.
Che siano scelte legate all’età, alle guerre intestine, ai problemi di salute dei componenti di queste formazioni leggendarie o semplici ed astute mosse di marketing, a noi, non interessa più di tanto. Anche se poi, quando ritorna in mente la scelta dignitosa ed etica dei Led Zeppelin, di sciogliersi dopo la morte del mai troppo compianto Bonzo, ci accorgiamo che porre fine ad una carriera leggendaria è sempre l’opzione più ragionevole. Scelta che consegna una band al mito.
La gestazione:
Ora, tornando a questa nuova ed “ultima” fatica in studio del Prete, bisogna innanzitutto menzionare l’apporto al nuovo disco del nuovo entrato Richie Faulkner, già visto in azione con la band di Lauren Harris, figlia del noto Steve.
La new entry ha già dimostrato di sapere il fatto suo, senza far rimpiangere il buon vecchio K.K., donando nuova linfa vitale ad una band di arzilli (ma non troppo) ultra-sessantenni. Sull’età di queste leggende c’è da spendere qualche parola. I nostri eroi, sono anch’essi dei comuni mortali, soggetti come tutti gli esseri umani al passare del tempo.Nel nostro immaginario di fan sfegatati, li concepiamo sempre giovani, forti, esplosivi e quasi immortali, tanto da voler che vivano in eterno. Tanto da volere che la vecchiaia non sia in grado di intaccarli. Ma così purtroppo non è. E non a caso le stecche di Rob Halford (su le cui spalle la vecchiaia e la stanchezza gravano come macigni) e quelle di Glenn Tipton ci riportano alla realtà. Già, se non ci fosse il giovane Richie Faulkner, non sapremmo proprio a chi affidare queste vecchie colonne del metallo.
In sede live, Halford ha perso la capacità di intonare i suoi tanto celebri acuti spacca timpani, a volte sforzandosi e cadendo in rovinosi e grossolani errori, altre volte allungando o abbreviando le metriche in modo da riprendere fiato. Glenn dal canto suo, sfoggia un non invidiabile sound grezzo, pastoso e sporco, sbagliando di tanto in tanto gli attacchi dei brani e steccando sui suoi rinomati riff. Niente da dire sul sempre impeccabile Scott Travis. L’anonimo Ian Hill invece sta sempre al posto suo, imbracciando il basso e meritandosi sempre la poca attenzione di tutti.L’album:
Detto questo, come suona il diciassettesimo album dei Judas Priest? A parte la mia “cattiveria” sui problemi legati all’età che avanza, considerando l’apporto del nuovo entrato questa nuova fatica in studio non è male, anzi a tratti è addirittura godibile. È un album scritto per i fan, gli inossidabili “defender“. A loro sembra sia stato davvero donato col cuore, da parte di una band che comunque cerca di non demordere nonostante i proclami di addio e gli “epitaffi” già composti.
Tipton e Faulkner hanno svolto un lavoro egregio in fase di songwriting, specialmente il secondo si è ritagliato molti spazi in cui eseguire brillanti virtuosismi, non facendo rimpiangere il dimissionario K.K. Certo, considerando i sei lunghi anni trascorsi dallo sperimentale ed ambizioso “Nostradamus“, qualcuno potrebbe obiettare alla band britannica di aver perso smalto in fase di composizione.Diciamocelo, qualcheduno invece si sarebbe aspettato un disco di miglior fattura. La realtà è che i Judas Priest hanno detto tutto già ventiquattro anni fa, chiedere altro sarebbe forse un po’ troppo. I Judas Priest avevano intenzione di congedarsi con un album che riportasse alla memoria i gloriosi trascorsi dopo il penultimo incolore capitolo della discografia. Non fosse per il sound pessimo dell’intera produzione, sporca e scarna (che inverosimilmente sembra voluta per ricalcare le sonorità degli 80ies), “Redeemers Of Souls” avrebbe potuto centrare l’obiettivo e forse meritarsi un posto migliore fra le uscite dell’anno.
Un discorso a parte ora merita la voce di Halford, volutamente impostata su tonalità più basse, che a tratti sembra convincere, ma che quando cerca il registro acuto cade miseramente. Anche l’interpretazione del frontman non è delle più esaltanti, sembra quasi d’assistere ad un continuo sali-scendi qualitativo. In definitiva, l’album non avanza grosse pretese se non quella di essere stato scritto e pubblicato per testimoniare la buona salute della band, oltre che per deliziare i suoi milioni di fans sparsi in tutto il mondo.
Ci sono brani riusciti, gradevoli, dalle melodie fresche ed interessanti, ed altri che a volte precipitano nel plagio (la title-track) piuttosto che nell’auto-citazione.“Dragonaut” è la prima traccia del disco, introdotta da un temporale con tuoni e fulmini che incombono minacciosi sull’ascoltatore. Presto si delinea un riff roccioso, accompagnato da un tappeto di batteria in doppia cassa ad opera del buon Scott Travis. Il refrain si stampa subito in mente, in perfetto stile Priest. Gli assoli del duo Faulkner-Tipton sono degni di nota, davvero lodevoli ed eseguiti con buon gusto e perizia tecnica.
Un buon brano questa “Dragonaut”, che certo non brilla per originalità, ma che tuttavia assolve al compito di apripista di questo “Reedemer Of Souls“. La title-track sembra però introdotta da qualcosa di già sentito. Anzi, è un mezzo plagio della più celebre “Hell Patrol“, e non solo per il riff! Ad ascoltare bene possiamo trovare tutta la struttura di sopracitata canzone.“Halls Of ValHalla” è invece il primo brano degno di nota, peccato per l’intro in falsetto di Halford davvero poco riuscita. La canzone è strutturata ed eseguita in modo magistrale da parte di tutti i musicisti ma la prova vocale di Rob è veramente sottotono. Il break ha qualche passaggio in registro acuto che strizza l’occhio ai tempi migliori, tuttavia è un caso isolato all’interno dell’album.“Sword Of Damocles” è lenta, epica e minacciosa. Si dimostra ancora una volta vincente la scelta di affidare al cantante di Birmingham un registro più consono alle sue attuali capacità. Le melodie corali di strumenti e voce sono davvero buone e nel complesso ai vecchi fan dei Priest sembra sia dato pane per i loro denti.”Secrets Of The Dead” è oscura e fa un po’ il verso a “A Touch Of Evil” con il suo arpeggio e le sue campane a morto in sottofondo. Questa volta il brano trascina l’ascoltatore in un viaggio da incubo dove il frontman si fa narratore magistrale. Poi ci pensa Glenn con la sua chitarra-synth a sfoggiare un assolo un po’ pacchiano ma convincente. Break con voce spettrale in sottofondo, ripartenza col l’azzeccatissimo ritornello e finale con arpeggio. Semplicemente da pelle d’oca!
“Battle Cry” è l’ennesima anthem ben riuscita perchè si stampa con facilità nella mente dell’ascoltatore, senza per questo risultare scontata. Sa travolgere, sa regalare adrenalina pura. Sono sicuro che in sede live renderà alla grande e trascinerà il pogo più selvaggio sotto il palco. Se Tipton e Co. avessero mantenuto questo standard a quest’ora staremmo parlando di un capolavoro.“Beginning Of The End” è la ballad che giunge inattesa a chiudere quest’ultima fatica discografica dei Judas Priest. Ha qualcosa di vagamente “settantiano”, un tributo veramente molto ben riuscito ad album come “Sad Wings Of Destiny” e specialmente a “Dreamer Deceiver“, che nel lontano 1976 sapevano mostrare il lato più intimista e sognante di una band forgiata nelle fiamme di un’acciaieria britannica. Ciò nonostante, noi, da buoni fans, ci auguriamo che questo “inizio della fine” tardi ancora a giungere!Marcello Mannarella Genere: Heavy MetalTracklist:
1. Dragonaut
2. Redeemer of Souls
3. Halls Of Valhalla
4. Sword Of Damocles
5. March Of Damned
6. Down In Flames
7. Hell & Back
8. Cold Blooded
9. Metalizer
10. Crossfire
11. Secrets Of The Dead
12. Battle Cry
13. Beginning Of The End
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