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Sfondi di un mondo in Multitask

In questi giorni, frugando fra le scatole impolverate del mio ultimo trasloco, mi è capitata fra le mani una vecchia TDK 90, sulla cui plastica un pennarello nero incise anni fa la scritta “Deep Purple Machine Head”. Avevo circa dodici anni quando registrai quella cassetta su consiglio di un amico più grande che

In questi giorni, frugando fra le scatole impolverate del mio ultimo trasloco, mi è capitata fra le mani una vecchia TDK 90, sulla cui plastica un pennarello nero incise anni fa la scritta “Deep Purple Machine Head”.
Avevo circa dodici anni quando registrai quella cassetta su consiglio di un amico più grande che aveva “rubato” il disco alla sorella. Ricordo bene quella giornata come anche tante altre, i sapori, i profumi, i dettagli, e tutto ciò non è casuale.
Discussioni di natura differente, mi hanno riportato alla mente quante cose succedevano quando da piccolo tentavo di prendere dagli amici tutti i dischi possibili, così da “passarli” su cassetta, grazie al primo Aiwa regalatomi. Puntualmente in poco tempo le dannate Tdk finivano nelle mani sbagliate o, semplicemente perché ascoltate troppo, esaurivano l’esigua forza spegnendosi in un fenomenale effetto “slow-tempo”.
Attorno a quei nastri, come anche nei vinili, aleggiava una forza viscerale e struggente che ancora oggi sotto strati di polvere riesce a farsi sentire, seppur svilita da qualche “app” d’occasione.
Possiamo chiamarlo in mille modi, è uno stimolo irrazionale, una sensazione, quel brivido lungo la schiena provocato da una canzone, da una melodia o una nota. Brivido che ha dato il via a grandi cambiamenti anche nel piccolo delle nostre giornate, e che oggi più che mai prende corpo nella contemplazione nostalgica di nastri e vinile.
Musicisti, ascoltatori e affezionati in tutte le loro forme, per indole si pensa riconoscano l’esistenza di tale forza senza troppa difficoltà, ma anche per loro non è più così certo.
Che cosa è successo se neanch’essi individuano più con facilità la forza che la musica possiede?È paradossale volere che tutti al mondo intendano le cose allo stesso modo, oserei dire triste e limitante.
Appare necessario, però, constatare come nei giovani di età compresa fra i 15 e i 25 anni, abituati o meno alla musica, sia andato progressivamente abbassandosi il numero di coloro che si rivolgono ad essa riponendovi fiducia e speranza. 
Ancora più importante è capire che nel mondo di smartphone e tablet, la musica si è ritagliata a fatica un piccolo spazio nella nostra barra applicazioni, mentre s’invia una mail di lavoro o si aggiorna il proprio profilo.
Sempre più “musique d’ameublement” quindi, un tappeto sonoro di sfondo a un mondo multitask.
Quello di oggi è un punto di arrivo iniziato con la rivoluzione digitale anni fa, e un nuovo punto di partenza per un’evoluzione che per un po’ di tempo non vedrà barriere. 
Nel desiderio che all’inizio degli anni ‘80 ha spinto l’industria musicale a riversare l’audio in un codice, risiede il “germe” del malware che ha posto in standby gran parte della forza emotiva e passionale della musica, imprigionandola così nel tempo di nastri e vinili.
Ricordo spesso le fatiche fatte per risparmiare i soldi che ricevevo dai miei genitori per acquistare un disco, l’attesa, il viaggio, il dubbio della scelta.L’interazione fisica, dava luogo alla nascita ad un filone di sentimento collegato a quel singolo disco, fatto di facce, volti, discussioni e odori. Il tutto andava poi a collocarsi nel multiverso della propria raccolta musicale. 
L’acquisto di un album restava ancorato nella memoria, come qualcosa d’importante, così da coinvolgerci profondamente anche a distanza di tempo e regalando ai brani contenuti nell’ Lp il potere di cambiare il nostro umore in una giornata storta.
Per molti giovani oggi, tutto ciò non è che romanticheria nerd. Per chi non ha vissuto il travaglio dell’acquisto di uno dei formati analogici, ed ha approcciato il mondo musicale con la venuta di iTunes, tante volte sembra impossibile poter dare alla musica un’accezione diversa da quella di tappezzeria.

In quest’atmosfera dalle tinte “bradburyane” il problema non è dato dalla digitalizzazione in se, e fortunatamente nemmeno dalla mancanza di buon materiale, ma piuttosto dallo svilimento di quest’ultimo dovuto all’overload informativo-produttivo. 
Il formato digitale ha portato innegabili vantaggi a disposizione di ascoltatori e musicisti, infatti ognuno attualmente può registrare le proprie creazioni con buoni risultati qualitativi, senza spesso doversi muovere da casa.Purtroppo ciò non ha portato al nascere di nuove band, ma bensì al ri-prodursi delle stesse, in notevoli sfaccettature più o meno originali. 
Non solo sul lato della produzione ma anche su quello della divulgazione e promozione ha pesato l’avvento della digitalizzazione prima e dello sviluppo della rete poi. Nell’oceano d’informazioni del web, abbiamo assistito alla delirante nascita di miliardi di gruppi e progetti, di natura non sempre raccomandabile, che sono andati a sommergere tutto il resto, compresi se stessi, e un mercato già in crisi mistica nel momento della scelta del formato Cd-Rom.
Viene anche da chiedersi come sia stato possibile che nell’intera industria musicale nessuno abbia pensato che la digitalizzazione dell’audio avrebbe portato a una più facile riproducibilità. Misteri della fede.
 Sempre più musica che suona e che non crea, anzi, musica che ri-suona, ma questo perché è la musica adatta all’era digiculturale. Facendo così un po’ il verso a quel Foscolo de “Le Grazie” che amo tanto, chiudo questa prima parentesi, lasciando il discorso in sospeso, ma non troppo. Ci fermiamo per riprendere un attimo fiato e proseguire poi domani con la seconda parte che tirerà le fila della questione.Francesco “edward84” SicheriVai alla seconda parte dell’articolo

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