Nell’ascolto dei Sigur Rós torniamo tutti un po’ bambini, immersi e trascinati dai grandi sentimenti, i dolori viscerali e le felicità spensierate, descritti nelle fiabe più avventurose. Anche “Kveikur” non fa eccezione nonostante l’oscurità sembri prendere il sopravvento e il nostro eroe si ritrovi come una fragile candela sotto la pioggia (“Kveikur” significa proprio stoppino) a lottare per continuare a irradiare la sua luce. La bolla eterea che racchiudeva i Sigur Rós di “Valtari” è andata in frantumi, facendo precipitare la band islandese su una terra fangosa, tormentata da una rumorosa tempesta. I Sigur Rós con “Kveikur” si dipingono per la prima volta alle spalle uno sfondo prevalentemente oscuro; non che questo colore mancasse completamente dai precedenti album, ma qui il rumore, il cacofonico, il “brutto” ha l’importante ruolo di antagonista e cooprotagonista.
La band islandese infatti gioca con atmosfere cupe e sporche, plasmandole. Le pone come antagonista dell’eroe e le trafigge con la voce luminosa, dolce e brillante: lo “zolfo” di “Brennisteinn” si propaga con la lenta e pesante cadenza delle onde del mare in tempesta, prima di dissiparsi ed essere domato da un sussurro. Il rumore non è comunque solamente antagonista, ma anche potente alleato; sporcandosi i Sigur Rós riescono a creare atmosfere di assoluta bellezza, come quelle della stupenda “Hrafntinna”, battuta da una costante pioggerellina metallica, o le grigie nuvole che passano veloci su “Yfirborð”. Quello che però stupisce maggiormente è l’inaspettato momento in cui l’oscurità, il rumore, prende il sopravvento e si impossessa della scena liberandosi dalle catene che lo tenevano sullo sfondo: la luce trema nella tempesta strumentale della catartica “Kveikur”.
I Sigur Rós però raccontano fiabe, e tutte le fiabe degne di questo nome hanno il lieto fine: al risveglio la tempesta è passata e il sole sorge facendo brillare la rugiada sull’erba (“Rafstraumur”). Non si tratta però di quelle fiabe banali che si chiudono con un semplice “vissero tutti felici e contenti”; “Bláþráður” e “Var” infatti diluiscono l’atmosfera aggiungendo quella malinconia tipica dei romanzi di formazione, con i personaggi che dopo aver fronteggiato le grandi avventure che la vita gli ha messo davanti si guardano alle spalle e si accorgono che il viaggio li ha cambiati e non possono tornare come prima.Con “Kveikur” i Sigur Rós trovano una spinta musicale imprevista innestando nelle loro tipiche atmosfere l’ossessività ritmica dell’elettronica (fondamentale nell’album) e sporcando i suoni con elementi noise. Non si tratta comunque di una vera e propria rivoluzione, perché sostanzialmente la ricetta della band islandese non è cambiata e l’unico brano che deraglia in maniera del tutto inaspetta è la bellissima titletrak. Non si tratta neanche di un album di difficile ascolto, perché i nuovi ingredienti sono messi al servizio della straordinaria sensibilità che la band di Jónsi ha sempre avuto nel creare brani Pop di grande forza.Detto ciò, è inevitabile che questa recensione, invece, finisca con un incontrastato “e tutti vissero felici e contenti”: con la grande epopea di “Kveikur” i Sigur Rós riescono ancora una volta a smuoverci con forza dal torpore quotidiano e farci vivere grandi emozioni.
Francesco CiceroGenere: Post-rock
Line-up:
Jón Þór Birgisson – voce, chitarra
Georg Hólm – basso
Orri Páll Dýrason – batteria
Tracklist:
“Brennisteinn”
“Hrafntinna”
“Isjaki”
“Yfirborð”
“Stormur”
“Kveikur”
“Rafstraumur”
“Bláþráður”
“Var”
Aggiungi Commento