È un giorno qualunque di quarantena COVID-19, quella fase 1, Lock-Down, come dicono i Media, ma non abuserò della situazione con frasi di circostanza virali.
Riesco ad accordarmi con uno dei musicisti che attraverso la sua musica mi ha scaldato il cuore: Tony Pagliuca, con il quale faccio una chiacchierata al telefono. Lui in Veneto, io lungo l’Adriatico all’altezza della costa dei Trabocchi, in Abruzzo, un mare che ci unisce.
Inutile dirlo, se state leggendo le nostre pagine è perché tutti noi amiamo la musica, e a parte i suoni della natura, la musica intesa come tale è creata dagli uomini e lui è uno di quelli. La musica è tantissima e diversa, ci allieta dei momenti, ci rende partecipe in situazioni, ci prende per il cuore e trascina in stati mentali dai più svariati attraverso i vari generi a noi conosciuti. Uno di questi è il Prog Rock, il Progressive.
È da tempo ormai che cerco di coinvolgere in un unico filo conduttore alcuni musicisti che in una maniera o nell’altra mi hanno trasmesso delle emozioni. Uno di questi tessitori di sentimenti è Tony Pagliuca, passato alla storia per essere stato il tastierista de Le Orme, gruppo trainante del Prog-Rock verde-bianco-rosso, ma che da trent’anni ormai produce altri generi sonori che scopriremo.
In Italia il genere proveniente dal Regno Unito, prese subito piede distaccandosi dal beat. È proprio il nostro paese ad essere il più prolifico di gruppi e album, in questa variazione sul tema Rock.
Decine e decine di band volgono il proprio strumento in direzione della reinterpretazione di alcuni aspetti della musica classica con la turbolenza e la sensibilità del Rock. Con le parole e gli aneddoti di Pagliuca attraverseremo quegli anni.
Non so ancora quel che mi dirà, ma alla fine di tutto, quando qualche giorno dopo riparleremo dell’intervista, mi sento come se arrivassi, dopo vicoli e vicoli, in una piazza della città Musica, mentre musicisti con i loro strumenti, cercano la sedia per sedersi e disporsi a ventaglio.
Sarà forse un’illusione ma pare che sia scoccata già una scintilla, che ormai flebile fiamma arde per dare energia a Felona e Sorona Sinfonica. Un progetto che attraverso le nostre chiacchierate ha preso vita e sta diffondendosi dalla mente ed il cuore di Tony, contagiando anche i suoi mitici compagni di viaggio, che come il loro nome evoca, hanno lasciato la loro impronta nel mondo del Prog.
Faccio la telefonata all’ora convenuta e lo colgo in macchina e mentre cerca un parcheggio, si parte a dialogare con un concetto imperniato sullo stato attuale della nostra società, del Covid, di quanto fosse strano il mondo in questi giorni e in genere.
Tony definisce la situazione con un laconico: ‘è un momento molto particolare’… Nel pieno del mio decadentismo aggiungo: ‘il mondo è stato costruito male‘… e lui specifica: ‘L’abbiamo costruito male, perché non possiamo toglierci la responsabilità, ce l’abbiamo tutti. Ecco ho trovato un parcheggio, sono tutto per te…’.
Come dargli torto…
Grazie Tony, ho preparato alcune domande che gireranno intorno al discorso della musica e alle emozioni che provoca, perché penso che il primo messaggio dell’artista in ambito musicale sia quello di trasmettere emozioni, poi viene il messaggio in sé e poi si raccolgono i frutti, che sono, metaforicamente parlando, gli applausi. Secondo te, come è l’essere musicista oggi, negli anni in cui efficienza, rapidità e capacità di vendita sono freddamente richiesti da ogni figura della “filiera”, dal proprietario del club, alla casa discografica, dai tecnici del suono, dal pubblico, anch’esso ipnotizzato dal “must be perfect”, del “o sei il massimo o non sei niente”. Gli stessi artisti lo sono… in epoche non lontane l’artista promuoveva la sua arte e dettava i gusti, ora sono i gusti a dettare l’aspetto del prodotto. Secondo te la creatività dei musicisti oggigiorno è influenzata dai gusti imposti?
Non è facile trovare la propria strada, ma se si ha talento prima o poi… Mahmood è un esempio dove la sua arte è coincisa con il gusto del pubblico e la sua originalità è stata colta e ben valorizzata dalla casa discografica.
Sei un tastierista che è stato il traino di una band, come Emerson lo fu per i Nice prima e gli ELP dopo. A musicisti come te, bisognerebbe riconoscere qualcosina in più, specialmente oggi dove chi suona ha tutto servito con milioni di sound-bank preinstallate in software… è stato già tutto inventato?
Ogni epoca ha i suoi pro e contro, mi domando spesso come facevano i musicisti del passato a scrivere le parti per tutti gli strumenti dell’orchestra… Penso poi alle difficoltà per mettere in scena un’opera lirica.
La mia generazione ha avuto un periodo molto favorevole grazie a nuovi strumenti analogici che ci offrivano suoni pronti ad essere agevolmente personalizzati.
Oggi lo sviluppo della tecnologia digitale offre un grosso aiuto alla produzione dei dischi e alla stampa delle partiture , ma ci vuole tanto lavoro per trovare suoni originali che suscitino lo stupore e la magia dei suoni degli anni ’60.
Il sottobosco Prog in Italia è stato sempre molto fitto e ricco di artisti volenterosi nel cimentarcisi. Chi con sonorità classiche o barocche, chi più sguaiatamente ‘hendrixiane’. Andaste nella patria del beat, Liverpool… l’isola di Wight… Londra… ci puoi raccontare di quel periodo?
Penso sia stata la voglia di scoprire le nostre radici e nello stesso tempo il desiderio di far conoscere al grande pubblico la grande musica, perché a noi a scuola non ce l’hanno insegnata. Eravamo al massimo maestri della teoria e solfeggio, ma tanto ignoranti sulle meraviglie del passato, per cui quando sentimmo suonare i Beatles fummo totalmente rapiti.
Poi questo innamoramento non ci bastava più e siamo stati attratti dalla musica di Keith Emerson. Caposcuola determinante per farci capire e apprezzare quale era il valore di J.S.Bach, J.Sibelius, A.Copland, tutti grandi compositori di musica classica. Questa è la caratteristica fondamentale della musica Progressive: contemporanea, senza confini, che abbraccia tutti i generi musicali senza dimenticare quella del passato.
Fare musica in tre, senza chitarra, fu una scelta, ma non deve essere stato facile, tu e Michi Dei Rossi avete avuto il vostro da fare. Vi ho sempre visti come il fulcro su cui poi Aldo Tagliapietra ha ricamato le sue poesie dando la linea di basso. La complicità musicale fra batteria e basso nel vostro caso è stata più che altro batterie-tastiere.
Hai colto un aspetto molto particolare del carattere del gruppo. In effetti pochi se ne sono accorti che nella formazione triangolare chi mi seguiva di più nella improvvisazione live era Michi Dei Rossi alla batteria. Lui era sempre attento a cogliere l’attimo e rispondeva sempre a tono, poi si agganciava Aldo Tagliapietra rilanciando altre note sempre appropriate tali da far scaturire altre idee che spesso andavano a confluire sul materiale utile per il disco a divenire.
La scelta di fare un trio è stata dettata dal destino del nostro amico bassista Claudio Galieti che era stato chiamato a servire la patria e dal cambiamento dei tempi: era il periodo di fare musica con una formazione essenziale. Hendrix, Emerson, Cream, insegnavano quindi bisognava dimostrare che chi suonava in trio ci sapeva fare, era come una sfida, una scommessa. E su quell’esempio Aldo si è improvvisato bassista ed io mi sono munito del poderoso (a quel tempo rarissimo e costosissimo) organo Hammond con il Leslie , per cui l’entusiasmo ha fatto il resto.
A dir la verità anche ai nostri giorni vi sono queste belle sfide: una sola persona può fare un ottimo spettacolo pop, Ed Sheeran ci insegna. Anche il duetto Twenty one pilots si distingue bene dalle altre formazioni. Oggi ci sono maggiori opportunità e libertà di scelta. Per quanto mi riguarda, a me piace il suono pieno dell’orchestra sinfonica e il coro, un fatto sempre più raro e straordinario. La musica registrata ha un altro racconto. La tecnica di registrazione progrediva e noi pionieri ingenui non abbiamo saputo resistere alle lusinghe di riempire tutte le piste a disposizione facendoci presto l’abbuffata di suoni, d’altronde non conosco musicisti che lasciassero le piste vuote.
Questo procedere poco lungimirante ci ha procurato poi grosse difficoltà per la musica live: immagina un registratore a 32 piste colmo di suoni e l’effetto che produce il missaggio finale sui diffusori dello studio e poi immagina il sentimento dei componenti del gruppo sul palcoscenico davanti ad un pubblico che magari aveva sentito il disco in radio o che l’aveva già acquistato. C’era da far venir la tremarella! Per risolvere questo problema abbiamo dovuto lavorare ulteriormente per trovare nuovi arrangiamenti, sviluppando improvvisazioni e contando su una strumentazione più abbondante. Il tutto poi compensava in qualche modo le parti del disco che non potevamo riprodurre.
Con Collage nel 1971 c’è stato il trampolino di lancio per quella che è stata una Power Trio Band, inedita in Italia, conosciamo i grandi Power trio americani o inglesi ma voi siete stati i pionieri nella penisola.
Sì è vero, in Italia c’era anche un altro gruppo formato da tre musicisti la Formula 3, però al posto del basso avevano la chitarra , ma senza il basso elettrico era un’altra musica.
Arrivaste a fare questo tour nella patria o seconda patria del Rock… C’era sempre il rischio di fare il buco nell’acqua, che qualcosa potesse andare storto…
Facemmo questo tour nel 1973, per promuovere la versione inglese di ‘Felona & Sorona’ e ne vado orgoglioso ancora oggi. Aver suonato nel locale dove avevano suonato i Rolling Stones, Jimi Hendrix, The Who ecc. inoltre abbiamo fatto concerti nei College, è stata una esperienza indimenticabile!
Il vostro rapporto con i musicisti britannici, quali Genesis e Van der Graaf Generator, com’è stato? Avete approfondito e condiviso le vostre conoscenze nell’esplorazione del suono e della musica?
Quello con i Genesis, è stato solo un incontro amichevole. Si entusiasmarono nel sapere che eravamo partiti da Venezia in Fiat 125 e Peter Gabriel lo raccontò subito al pubblico durante il concerto destando sorpresa e simpatia.
Mentre con Peter Hammil dei Van Deer Graaf Generator, facemmo una tournée in tutta Italia e da questa amicizia nacque una collaborazione di rilievo: Peter scrisse i testi in inglese per la riedizione dell’album ‘Felona & Sorona’.
Arrivaste così al periodo con Tolo Marton, stavolta la chitarra c’era e come… Siete diventati abbastanza psichedelici dal sapore californiano con Smogmagica… non solo per la traccia Los Angeles… sotto certi aspetti l’album è stato l’apoteosi dello psichedelico italiano, dal mio punto di vista. Qual è stata la motivazione dell’inserimento di un chitarrista dall’estrazione Blues nella line-up?
La scelta era quasi obbligata, il suono delle tastiere era ormai abusato e scontato. C’era bisogno di una scossa e decidemmo per la chitarra e quando Tolo se ne andò e arrivò Germano Serafin registrammo ‘Verità Nascoste’ dove la chitarra ha raggiunto un livello mai raggiunto in Italia. Germano portò una buona dose di linfa vitale alle Orme.
È un bell’album, avete avuto un chitarrista di matrice Blues, non sceglieste qualcuno che veniva dal jazz piuttosto che dal Classico, ma inseriste il Blues…
Una scelta che rifarei senz’altro, Germano Serafin era polistrumentista eclettico e spaziava con maestria in ogni genere, tanto che pochi anni dopo si trasformò improvvisamente, come per miracolo, in un virtuoso del violino.
‘Truck of Fire’ è un bel sanguinaccio del Prog Rock, contenuto nell’album apri pista del genere, il Live, che in Italia non ancora aveva fatto nessuno. Come mai non lo avete mai registrato in studio?
Non lo abbiamo mai registrato in studio per valorizzare di più l’album dal vivo.
So che hai iniziato con la fisarmonica. Ho letto in una tua intervista di quando andasti al Conservatorio di Milano, in seguito e che erano ancora rimasti ai tempi di Giuseppe Verdi…
Si da autodidatta. Mi sono iscritto quasi a fine carriera al conservatorio
Hai fatto la via al contrario…
Non l’ho voluto io, perché non potevo andarci da bambino. I miei genitori non avevano mai pensato che diventassi musicista e poi negli anni sessanta, andare a conservatorio era un impegno economico enorme. Questo sogno l’ho realizzato quando ho lasciato Le Orme, e mi sono sentito libero di fare questa esperienza. Ma la frequentazione è stata per una stagione perché la vita poi mi ha indirizzato verso altre strade.
La tastiera per Tony Pagliuca cos’é?
La tastiera è lo strumento principe, rispetto agli altri strumenti, perché puoi avere tutto sotto le dieci dita, per organizzare melodia e armonia.
Hai galoppato su tanti cavalli… l’Hammond M100, Mini Moogs, Clavinet Honer, Organo Eminent, il Mellotron, il Rhodes, non ti sei fatto mancare niente…
Si è vero, ho fatto delle belle corse ed ora ho la fortuna di suonare in chiesa il re di tutti gli strumenti : l’organo a canne! Oltre al suo particolare e meraviglioso universo sonoro è munito della pedaliera per bassi. Spesso mi perdo in una storia infinita come il racconto di “le mille e una nota”.
Qual è stata la chiave di volta della tua carriera?
Sicuramente il fatto di essere venuto a vivere in un posto dove la musica era di casa e le occasioni di incontrare parecchi musicisti già noti erano tante vedi la stagione con i Delfini di Padova e poi il passaggio alle Orme di Venezia.
L’episodio da porre sul piedistallo?
La prima volta che ho registrato. Era l’epoca del disco singolo e quasi tutti i musicisti italiani negli anni sessanta sono entrati in studio per registrarne uno. Per me è stato diverso perché mi trovai davanti al progetto di un Long Playing che di solito raccoglieva canzoni pubblicate precedentemente su 45 giri. Con le Orme (che avevano già fatto il singolo Fiori e Colori) entrai in studio per registrare Ad Gloriam uno dei vinili storici della musica italiana, un album di canzoni tutte inedite. Per me è stata una coincidenza fantastica.
Che tipo di emozioni hai provato quando sei salito sul Palco dopo anni di nuovo con Aldo Tagliapietra, in quel contesto con Tolo Marton alla chitarra e un energico e giovane batterista?
Una forte emozione senz’altro, ma io mi aspettavo di fare progetti nuovi, non solamente un breve tour di concerti. A questo lavoro avrei preferito ritrovare l’amicizia. Comunque è stato un bel ritorno e mi sono anche divertito.
E si vede, quando suoni, hai dei sorrisi carichi di gioia… sei molto felice, spontaneo nei tuoi virtuosismi, che poi hai collaborato con i testi.
Dici? Non credo di essere mai stato un virtuoso… per quanto riguarda i testi nel 1970 mi sono improvvisato paroliere e ho continuato per tutto il corso degli anni ’70 e qualcuno è riuscito anche bene. Per esempio, Sguardo verso il cielo, La fabbricante d’angeli (La procuratrice d’aborti) e Frutto acerbo.
Quando ti chiesi di fare l’intervista è uscita una storia interessante su una frase focale tratta dall’album ‘Felona e Sorona’, ossia ‘due rose gemelle non muoiono assieme‘. Mi hai detto che la frase era in realtà diversa e la metrica te la fece buttare giù così. La frase che conosciamo è bellissima e decadente, ma tu in realtà cosa volevi dire?
Se ho espresso ciò che tu hai pensato, a mia insaputa, questo mi consola solo in parte perché testi di ‘Felona e Sorona’ li abbiamo scritti in camerino durante il tour teatrale. La storia dei due mondi opposti era molto interessante, ma il tempo era scaduto e ho dovuto consegnare il compito senza avere avuto il tempo per riflettere. Infatti se noti bene nella copertina c’è una sorta di parafrasi del testo! Credimi sono sincero quando dico che quegli ultimi quattro versi della strofa mi facevano soffrire tantissimo ogni volta che li risentivo e mi ero promesso di porre rimedio prima o dopo… il tempo è volato e alla tua odierna provocazione rispondo così:
Triste sei tu, Sorona.
Felice canta Felona all’aria:
Due rose gemelle sospirano il Blu.
Touché… mi hai infilzato, grazie per la tua rivisitazione, mi onora, davvero. Dimmi, come siete passati dal Prog alla classica da camera per arrivare a ‘Venerdì’?
Venerdì doveva essere l’ultimo lavoro de Le Orme perché avevamo deciso in comune accordo di andare poi ognuno per la propria strada.
La tua musica dopo Le Orme, ce la racconti?
Come ho detto prima andai al conservatorio, volevo continuare a studiare e a continuare quello che non ho potuto fare più con Le Orme, dopo l’album ‘Florian’. Mi sarebbe piaciuto sviluppare quell’idea, ma in conservatorio non mi sono trovato bene perché anche alcuni professori mi avevano detto chiaramente che non c’erano scorciatoie per diventare compositore. Loro non potevano tenere conto del mio passato di musicista e dovevo ripartire da zero e fare tutti i 10 anni di studio. Quando ho capito che mi sarebbe stato concesso nessuno sconto ho rinunciato.
Sarebbe stato un precedente per altri…
Può darsi, non lo so. Dopo ho cercato di inserirmi nel campo della musica delle colonne sonore per il cinema e scelsi di vivere a Roma. Ho trovato subito lavoro nel campo teatrale. Ho trovato delle persone che erano interessati alla mia musica. Ma per il cinema forse non ero pronto. Nel 1987 facemmo la reunion e andammo a Sanremo con ‘Dimmi che cos’é’, abbiamo registrato l’album, ma evidentemente non ci eravamo riappacificati per bene. Erano rimaste incomprensioni e decidemmo di andare definitivamente ognuno per la propria strada.
Poi ho scritto l’album ‘Io chiedo’ nel 1990, ‘Immagin-Arie’ nel 1993, ‘Demos a Marghera’ nel 2004, ‘Re- Collage’ nel 2004, ‘La Notte della Stella’ nel 1999, ho partecipato al primo Cd di Pope Francis ‘Wake Up’ nel 2015 e ‘Canzone d’amore’ (solo piano) nel 2018.
Non ti sei mai fermato… ho saputo che hai abbracciato delle sonorità più vicine alla contemplazione religiosa. Molto interessante. Dove arriverà la musica secondo te?
Non so dove arriverà so che la vita va avanti nonostante questo momento difficile , forse questo è un periodo di pausa e di silenzio.
Sei nato a Pescara, abbiamo in comune l’essere abruzzesi, ma lo sai che alcuni abruzzesi sono rimasti basiti quando suonaste al Teatro Michetti, quando li salutasti dal palco, il tuo accento veneto li ha spiazzati. Conosci questa storia?
Sì, me l’han detto, a me è sembrata solo un’ingenuità. Torno spesso a Pescara e ho bene in mente il dialetto abruzzese che mi piace così tanto che mi diverto spesso a fare tante chiacchierate con mio zio e i cugini…e quando li chiamo al telefono con: ‘Ueh comma’sti’, non mi riconoscono e mi scambiano per ‘NDuccio. Le radici sono quelle, non si possono rimuovere, ed é proprio grazie a questa diversità che a Venezia ho trovato la musica, l’amicizia, l’amore.
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