Pubblicato appena prima che si diffondesse la notizia della sua neuropatia, I Still Do è ancora una volta una testimonianza della solidità artistica di un grande chitarrista e del suo essere oggi totalmente “laid back” anche nei confronti dello stesso music business.
Che Clapton possa continuare a suonare e a che livello è una domanda che troverà risposta solo nel futuro più o meno immediato. La sua chitarra e la sua stessa storia musicale hanno tracciato un solco netto nella musica degli ultimi cinquanta anni e il suo ruolo di trait d’union – uno dei principali – fra blues americano e cultura musicale europea lo ha visto attraversare varie epoche con grazia e stile. Quando qualcuno lo dava già perso dietro un’immagine più edulcorata e alle poco incisive produzioni pop degli anni ’80, nel decennio seguente con album come From The Cradle riportava con polso fermo l’obiettivo sul blues più genuino, rilanciandosi su più fronti fra delicatezze unplugged e sorprendenti bordate chitarristiche degne della sua fama.
Si racconta di quando, all’apice della sua epoca “soft”, in studio con il suo tecnico per testare un ampli, si lanciava di getto in una raffica di lick e fraseggi con un sound tosto e pesante che nulla aveva da invidiare all’epoca dei Cream, e alla fine si voltasse per commentare: “Non pensavi che ne fossi ancora capace, eh?” Il gentleman Clapton è capace di trasformarsi in un grintoso performer sulle note dei maestri del blues o in un pilota spericolato sulla sua Porsche quando supera i 300 Km orari sulle normali strade inglesi. Ed è capace di prenderla anche con filosofia quando – di fronte alla malattia ingravescente – considera di essere comunque un sopravvissuto (all’alcool e alle droghe), di aver avuto un regalo dalla vita con gli ultimi decenni.
In questo album, che arriva a tre anni di distanza da Old Sock, consolida il distacco dalle major discografiche nell’evidente libertà di incidere ciò che più gli piace al momento, a vantaggio della qualità artistica e della coerenza con le proprie basi. Rispetto all’album precedente il blues ha qui un peso maggiore e la distanza con l’epoca-Armani è già tutta nell’immagine di copertina, un’illustrazione firmata da Peter Blake con Clapton in giubbino jeans e camicia scozzese, occhiali e capelli da “uomo comune”.
In I Still Do (e il titolo è significativo), Clapton dimostra fin dal primo pezzo di poter andar giù pesante con il suo strumento quando affronta il repertorio di Leroy Carr (“Alabama Woman Blues”) o Skip James (“Cypress Grove”), e ancora meglio se si tratta di Robert Johnson (“Stones In My Passway”): è un piacere sentire la sua elettrica “sporca” e ignorante con un groove e un tiro invidiabili. Alla faccia dell’eleganza a ogni costo.
D’altronde, il suo tocco sull’acustica è sempre tale da creare atmosfere delicate e godibili e Clapton è talmente rilassato da cimentarsi persino in canzoni impegnative come “I’ll Be Seeing You” dal repertorio di Bing Crosby e Billie Holiday o “Little Man You Had a Busy Day” associata fra gli altri a Sarah Vaughan: se la sua voce mostra qualche cedimento, lui ne fa comunque un pregio, creando due piccoli capolavori di finezza.
Nell’album il chitarrista inglese paga doppiamente il suo pegno abituale a J.J.Cale – ormai d’obbligo – nelle efficaci cover di “Can’t Let You Do It” e “Somebody’s Knocking”, e si lascia andare a un mood più sofisticato nell’unica canzone che firma in solitaria, “Catch The Blues”.
I Still Do si avvale della produzione esperta di Glyn Johns, recuperato dopo quasi 40 anni da Slowhand e Backless, e contiene anche una discreta cover di un pezzo di Bob Dylan, “I Dreamed I Saw St Augustine”, che nulla toglie o aggiunge al resto.
Eric Clapton fotografato oggi con grande realismo e senza pose da divo. Un buon lavoro da apprezzare per molti motivi.
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