Ci sono momenti diversi per ogni tipo di musica, e sono sempre stato convinto che ascoltare determinate tipologie di album fuori dal corretto spazio temporale/emotivo/metereologico possa comprometterne in maniera irreversibile il futuro rapporto d’ascolto. Nel corso degli anni ho capito poi che, malgrado questa regola sia quasi sempre corretta (nel mio caso), esistono alcune band o alcuni generi musicali che riescono a fare breccia anche quando il mondo circostante sembra remargli contro. Un buon disco di chitarra acustica solista rientra a pieno diritto in questa sfera di “untouchables” della mia routine d’ascoltatore. Attenzione: non ho detto “un disco di buona chitarra acustica solista”, il calibrato uso dell’aggettivo “buono” è fondamentale. Data la premessa potrete intuire che quello che mi appresto a descrivere rientra in questa fortunata cerchia. Quando ascoltai Matteo Brenci per la prima volta m’interrogai immediatamente su come fosse possibile che un ragazzo così giovane riuscisse a dimostrate una tanto evidente maturità musicale, caratteristica solitamente difficile da mettere in mostra per chi si trova ai blocchi di partenza (anche quando in possesso di grande talento). A Brenci non mancano né l’una né l’altra cosa, pertanto quando qualche mese fa il suo disco mi è stato recapitato per una recensione, ero già abbastanza sicuro del fatto che mi sarei trovato di fronte ad un prodotto decisamente interessante. Simplicity, questo il titolo, e nessun’altro poteva essere più calzante nel riassumere ciò che la musica contenuta è capace di comunicare nel corso dell’ascolto, questo non perché sia “semplice” con accezione negativa, quanto piuttosto perché il senso di estrema naturalezza che ne deriva, regala momenti di grande comunione fra sonorità e percezione epidermica. “Raindance” introduce l’album con una linea melodica che nel suo protendersi verso il refrain respira a pieni polmoni lo stile con cui costruisce il proprio cammino la celebre “Rylynn” di McKee, ma, cosa ben più importante, vi fonde quello che si capisce presto essere un sapore proprio dello stile di Brenci. Il nostro è molto bravo nell’architettare brani che aprono i propri orizzonti con la pazienza di chi sceglie bene il momento in cui mostrare tutte le carte a disposizione. La traccia iniziale ne è un ottimo esempio, così come lo è la più incalzante “Django“, ma soprattutto “In Wonderland“, che su un mood sognante va progressivamente costruendo un’evoluzione mai stantia o troppo ridondante (caratteristica non ovvia per brani chitarristici di questa tipologia). La componente melodica è molto importante in questo disco, tanto che nell’ascolto ci si ritroverà quasi sommersi da quello che è un buon concentrato di brani per chitarra acustica in forma canzone. Le linee melodiche cooperano bene con la controparte ritmica, ed anche le fasi di transizione verso le sezioni solistiche non risultano mai semplici stacchi dal percorso principale. “I Dream” è un brano carico di pathos, che mantiene però ben salda una spiccata predisposizione per il groove, ed in brani, come questo, che grazie a sonorità sognanti (per l’appunto) e rilassate, tendono per natura a perdere di vista la strada, è davvero un’ottima qualità.Per chiunque abbia mai ascoltato Matteo Brenci sarà ovvio voler parlare di quello che è l’elephant in the room: il nostro è un allievo della “scuola Emmanuel” e negarlo sarebbe disonesto. I rimandi allo stile del maestro australiano sono ben più che semplici rimandi, brani come “1924” o “Joe’s Joke” ne sono testimonianza, malgrado ciò la personalità di Brenci riesce sempre ad emergere (in alcuni brani più prepotentemente che in altri), ed è già questa una conquista davvero notevole per un album di debutto. Sì, questo è un album di debutto, ed invito a prestarvi ascolto per comprendere la mia enfasi nel sottolinearlo. Le scelte armoniche e ritmiche sono quelle di un chitarrista con ben più chilometri alle spalle di quanti l’autore non ne abbia realmente, e questo non può che fare grande onore ad un ragazzo classe ’91. L’album chiude con la splendida “Rollin“, brano che più di tutti gli altri mi è rimasto impresso nella mente, forse perché pur senza raggiungere i due minuti e mezzo di durata mette in mostra la capacita narrativa di un buon romanzo (preferibilmente d’ambientazione western). Simplicity termina lasciando ben più di una “vibrazione positiva” addosso, conquista l’orecchio grazie ad una scaletta ben calibrata, mai troppo tediosa nel proprio ripetersi ed in grado di richiedere il giusto tempo d’ascolto. Perché ho esordito dicendo che il titolo scelto è il più calzante? Perché l’album di debutto di Matteo Brenci è semplicemente l’immagine perfetta della sua capacità artistica, del suo talento e del suo essere al mondo, e credetemi quando dico che non è una cosa ovvia. Dal disco emergono il sorriso e lo sguardo della copertina, si ascoltano immagini sonore che potrebbero essere tramutate in una camicia a quadri (passione che sembra accomuni il sottoscritto e Brenci) e tutto nelle tracce lavora alla composizione di un quadro che vince nel suo dialogare con le emozioni più semplici e naturali. Che un album rappresenti bene il proprio autore è un qualcosa di arduo da raggiungere anche per i più navigati, pertanto questa carriera discografica non poteva iniziare sotto migliori auspici. Francesco SicheriGenere: AcousticTracklist:
1. Raindance
2. Django
3. In Wonderland
4. Flying Ants
5. I Dream
6. 1924 (In honor of Chet Atkins)
7. Simplicity
8. Joe’s Joke
9. Waves
10. Rollin
Matteo Brenci – Simplicity
Ci sono momenti diversi per ogni tipo di musica, e sono sempre stato convinto che ascoltare determinate tipologie di album fuori dal corretto spazio temporale/emotivo/metereologico possa comprometterne in maniera irreversibile il futuro rapporto d'ascolto. Nel corso degli anni ho capito poi che, malgrado questa regola
Aggiungi Commento