Ultimo appuntamento con la nostra rubrica “Alla scoperta dell’Opera“, in questo episodio scopriamo un’altra opera di Giuseppe Verdi: “Un ballo in maschera“.
Uno dei grandi misteri, se così si può definirlo, della carriera di Verdi, riguarda indubbiamente il rapporto del compositore con il “Re Lear” shakespeariano, la carriera di Verdi ha infatti incontrato a più riprese le opere del Bardo, ma nel corso degli anni il “Re Lear” torna a farsi sentire emergendo dalle parole di lettere e cronache come il soggetto mancato dal Maestro; è lecito però chiedersi perché un articolo riguardante “Un ballo in maschera” possa prendere avvio senza timore parlando della complessa relazione che Verdi ebbe con “Re Lear”, ma in realtà si scoprirà presto come la risposta sia molto più semplice di quanto si possa pensare.
Nel febbraio del 1857 il Teatro San Carlo di Napoli avviò la consueta trafila di trattative con Verdi per un’opera da rappresentarsi durante il Carnevale dell’anno successivo, e proprio in quell’occasione il compositore decise che tale opera sarebbe stata il tanto agognato “Re Lear”. Avendolo già smascherato come capolavoro mancato, è facile intuire come i piani di Verdi riguardo furono però modificati, questa volta a causa dell’inadeguatezza dei cantanti del San Carlo per i ruoli vocali pensati per il “Re Lear”. (1)
Fin dal primo momento Verdi aveva coinvolto nel progetto il librettista Antonio Somma, che sarà in grado di trovare fama, anche se per pochissimi anni prima della morte, proprio grazie al lavoro che Verdi gli affiderà. Accantonato il soggetto shakespeariano Verdi e Somma dovettero rivolgere l’attenzione altrove, e per l’esattezza puntarono lo sguardo verso la Svezia, terra che già aveva dato materiale per il teatro musicale e che già aveva interessato la vena di illustri nomi del panorama internazionale. Ad attrarre Verdi fu la figura di Gustavo III di Svezia, sovrano protagonista del “Gustave III, ou Le bal masqué” che Daniel Auber e Eugène Scribe avevano portato con gran successo sul palco dell’Opéra di Parigi nel 1833.
A rendere tale personaggio così intrigante, oltre alla complessa caratterialità, è indubbiamente la vicenda riguardante la sua morte, sulla quale anche gli stessi Auber e Scribe si basarono per il loro grand-opéra in cinque atti. Gustavo III fu infatti vittima di una cospirazione che culminò con la sua uccisione durante un ballo in maschera organizzato per una festa al Teatro Reale di Stoccolma la sera del 16 marzo del 1792. Durante la cena che precedette il ballo, Gustavo fu avvisato con una lettera anonima di un possibile attentato alla sua vita, ma, non essendo nuovo a questo tipo di minacce, decise di ignorare l’avvertimento e proseguire la serata come pianificato. Il colpo di pistola con cui Gustavo fu colpito non fu immediatamente letale, ma la ferita procuratagli si infettò gravemente conducendo il sovrano alla morte nel mese di marzo.
Il soggetto, come già aveva fatto in passato, si prestava alla perfezione per la trasposizione in melodramma, Verdi era convintissimo che fosse “[…] grandioso e vasto; è bello, ma anche questo ha i modi convenzionali di tutte le opere per musica, cosa che mi è sempre spiaciuta, ma che ora trovo insoffribile“. (2)
Le preoccupazioni di Verdi quindi vertevano sulla convenzionalità insita nella trama e nella sua struttura, e non su quello che sarebbe invece stato il problema più difficile da superare per la messa in scena dell’opera: la censura napoletana. Antonio Somma ricavò dalla vicenda storica, e dal lavoro già compiuto da Scribe, il libretto per quello che diverrà “Un ballo in maschera“, ma a causa dei tempi sempre più stretti, né lui né Verdi badarono a quanto la vicenda dell’uccisione di un sovrano fosse attaccabile dai censori.
Quest’ultimi per l’occasione si prodigarono in una delle crociate più infervorate che la carriera di Verdi possa ricordare, e non si può certo dire che il compositore fosse nuovo al doversi confrontare con ostacoli simili. Affinché “Un ballo in maschera” andasse in scena furono richieste a Verdi modifiche molto importanti sulla trama dell’opera: il protagonista non avrebbe potuto essere un monarca e la cospirazione degli attentatori non poteva avere carattere politico. Come se ciò non bastasse, alle imposizioni della censura si aggiunsero gli eventi politici dell’epoca: il 14 gennaio 1858 Felice Orsini attentò alla vita di Napoleone III con lo scopo di privare il Papa e lo Stato Pontificio della più grande fonte di difesa dall’insurrezione popolare.
La dirigenza del San Carlo propose quindi a Verdi una versione rivista per incontrare i favori della censura dal titolo “Adelia degli Adimari”. Verdi rifiutò la proposta, il San Carlo lo accusò di inadempienza contrattuale e lui rispose con una querela per danni. La genesi di “Un ballo in maschera”, così come quella di altre delle ventisette opere di Verdi, è essa stessa buon materiale per una storia avvincente, ed in virtù di ciò prima del debutto sul palcoscenico godette di un’altra importante svolta.
Per portare a compimento il proprio lavoro Verdi dovette aspettare il 17 febbraio 1859, quando, al Teatro Apollo di Roma, quella che doveva essere “Gustavo III” andò in scena con il titolo che sarebbe divenuto definitivo. Per approdare a Roma, Gustavo fu trasferito dalla Svezia a Boston, il sovrano Gustavo si trasformò in Riccardo conte di Warwick governatore del Massachusetts… e l’uccisione del Re? L’uccisione del regnante fu approvata dalla censura romana, pertanto Verdi e Somma attuarono al libretto le modifiche che sarebbero poi rimaste come definitive. “Un ballo in maschera” quindi passò dall’essere la narrazione dell’uccisione di Gustavo III all’essere la narrazione della cospirazione contro il Conte Riccardo, governatore illuminato della colonia inglese di Boston sul finire del XVII secolo.
La vicenda di Riccardo è macchiata anche da una profezia (elemento che in alcune leggende ricorre anche nella storia di Gustavo III Re di Svezia). All’inizio dell’opera a Riccardo viene chiesto di firmare la condanna all’esilio della maga Ulrica, ma lui preferisce smascherarne l’impostura affrontandola travestito da pescatore. Giunto dalla maga, Riccardo scopre che la donna che ama, Amelia, è a colloquio con lei per ottenere un rimedio per sfuggire ad una passione illecita (la relazione segreta con Riccardo). Nel suo incontro con il governatore la maga regala a Riccardo un’infausta previsione: sarà presto ucciso da un amico, che potrà riconoscere nella prima persona a cui stringerà la mano.
Come abbiamo detto però il conte Riccardo nasconde però un segreto: egli è sì amico di Renato, ma è anche amante in segreto di Amelia, moglie dell’amico. Riccardo raggiunge Amelia al campo degli impiccati, dove lei si è recata per raccogliere un’erba che l’aiuterà a dimenticare l’amore illecito per Riccardo. Durante l’incontro Renato accorre per avvertire Riccardo di una congiura a suoi danni, così il governatore affida quindi Amelia a Renato affinché questi la riporti in città, e lei, coprendosi il volto con un velo, riesce inizialmente a non farsi riconoscere dal marito. In quel momento i cospiratori appaiono per realizzare il loro piano, e delusi dall’aver mancato il governatore Riccardo sono intenzionati a scoprire il volto della donna. Renato si oppone a loro con la spada, ma Amelia, tentando di ostacolare il duello, lascia cadere il velo mostrando così la verità al marito. Scoperto il tradimento Renato è inizialmente deciso a voler uccidere Amelia, ma presto si ricrede, dirigendo così il proprio odio nei confronti dell’amico Riccardo. Il culmine dell’opera è quindi la festa in maschera indetta dal Governatore Riccardo, alla quale anche Renato e Amelia sono invitati.
La festa, che nell’opera ottocentesca è frequentemente luogo in cui spensieratezza e tragedia si incontrano, diviene il momento in cui le tensioni fra gli individui si mescolano al fervore delle celebrazioni collettive. Lo scontro fra la controparte festante e quella delittuosa si manifesta ovviamente in musica palesandosi in più occasioni, prima nel cozzare fra la canzone del paggio Oscar «Saper vorreste» e la ricerca di Riccardo da parte di Renato, poi nell’addio degli amanti accompagnato da una mazurka, che ritornerà anche a guidare il colpo mortale ed il testamento di Riccardo (il quale prima della festa aveva firmato il ritorno in Inghilterra di Amelia e Renato).
Ad avvolgere il finale dell’opera è il travestimento, che a ben vedere però è presente fin dall’inizio dell’opera, quando lo stesso Riccardo si era camuffato per incontrare la maga che predirà la sua morte. È poi Amelia a mascherare il proprio volto con un velo, la cui caduta è simbolo della fragilità della finzione e della menzogna che, per quanto ben celate, finiscono per essere disgregate da un evento accidentale. La risata di Riccardo di fronte alla profezia di Ulrica riecheggia in quella dei congiurati di fronte alla scoperta di Amelia, in un gelido mostrarsi del comico come accentuazione per estremo dell’essenza tragica della vicenda, essenza che si manifesta in maniera completa nel tramutarsi della festa in un omicidio.
La shakespeariana “comica” ironia tragica, il ritmo drammatico stringato ed incalzante, ed uno stile musicale variegato che rimanda ad una ricerca di pluralità stilistica cara al Verdi di quegli anni (elemento chiave nel far sì che in tutta l’opera non emerga un solo personaggio a “governare” gerarchicamente sugli altri), hanno fatto di “Un ballo in maschera” un successo immediato al momento del suo debutto, dando inoltre a molti studiosi sufficiente materiale per definire a quest’opera come il “capolavoro perfetto” di Giuseppe Verdi.
Note:
(1) Nella lettera a Vincenzo Torelli del 17 giugno 1857 Verdi dà notizia di non voler cercare un nuovo soggetto (che sarebbe poi stato Gustavo III) e ipotizza di rimandare il “Re Lear” all’anno successivo (con una compagnia adeguata) e in sostituzione di dirigere lui stesso al San Carlo nuovi allestimenti di “Aroldo, Simon Boccanegra” e “La battaglia di Legnano”;
(2) Lettera di Verdi a Vincenzo Torelli del 17 giugno 1857.
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