L’enorme patrimonio che ci ha lasciato Jimi Hendrix riserva come sempre delle grandi sorprese. È così anche per Both Sides of the Sky, un album contenente tredici tracce, alcune inedite, altre in versioni differenti rispetto a quelle già conosciute. Il lavoro chiude la trilogia iniziata nel 2010 con Valleys of Neptune e proseguita tre anni dopo con People, Hell and Angels.
Tutt’e tre non si possono definire veri e propri “album” o almeno non come li avrebbe concepiti il chitarrista di Seattle, però si tratta pur sempre di lavori venuti alla luce grazie al solito team, composto principalmente dalla sorellastra Janie Hendrix, che gestisce l’eredità di Jimi, e da due importanti collaboratori come il produttore Eddie Kramer e l’archivista John McDermott.
Le registrazioni risalgono al periodo compreso tra il 1968 e il 1970 e i musicisti che accompagnano Hendrix sono sia Noel Redding e Mitch Mitchell dell’Experience, sia Billy Cox e Buddy Miles della Band of Gypsys, oltre a una serie di ospiti prestigiosi.
I brani che si ritrovano pubblicati in “Both Sides of the Sky” costituiscono ovviamente un modo per apprezzare il solito indiscusso talento di Hendrix già da “Mannish Boy”, cover di Muddy Waters.
Non costituiscono delle vere e proprie novità “Lover Man” o “Hear My Train A Comin'”, ma soprattutto in quest’ultima il lungo assolo è una di quelle certezze che non stancheranno mai.
Una delle gemme dell’album è senza dubbio “$20 Fine”, brano scritto da Stephen Stills che per l’occasione canta e suona l’organo, come accade in “Woodstock”, il pezzo composto da Joni Mitchell e che sarebbe stato poi inciso anche da Crosby, Stills, Nash & Young in una versione successiva a quella contenuta in questo lavoro, dove peraltro Hendrix suona il basso.
Tra i contributi più significativi ci sono quello di Johnny Winter, presente con la sua chitarra in “Things I Used To Do”, e quello del vecchio amico Lonnie Youngblood, che impreziosisce “Georgia Blues” con voce e sax.
Hendrix si cimenta poi col vibrafono in “Sweet Angel” (versione strumentale di “Angel”) e con il sitar elettrico nella conclusiva “Cherokee Mist”.
Non sapremo mai se per sua volontà queste registrazioni sarebbero state pubblicate, ma si sa per certo che i collezionisti (e non solo) sono e saranno sempre felici di ascoltare il chitarrista di Seattle, soprattutto nell'”intimità” di sessioni di registrazione svoltesi principalmente al Record Plant di New York… perché anche brani per lui forse “incompleti” o non degni di pubblicazione sono comunque sempre qualcosa di sorprendente e di sovrumano per chiunque ascolti.
Leonardo Follieri
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