Quella di Mike Cooper è una storia lunghissima e bellissima, che prende spunto dalla rivoluzione elettrica di Bob Dylan e si perde, ai giorni nostri, su una zattera nell’Oceano Pacifico, obiettivo privilegiato dello sguardo etno-musicale di Mike ormai da più di un lustro.
Ne è passato di tempo dal leggendario diniego che il chitarrista inglese diede ai Rolling Stones, preferendo la propria autonomia stilistica al successo.
Già dall’avventuroso mix di country e jazz dalle tinte cosmiche e free dei lavori dei primi anni Settanta, Cooper ha chiarito la sua tendenza a muoversi sempre a margine, scegliendo l’improvvisazione e la contaminazione come predilette caratteristiche espressive.
Si spiega così tutta la produzione italiana di inizio millennio e anche la breve ma significativa esperienza in Libano del 2011, soltanto alcune delle fasi più convincenti (quando non memorabili come Radio Paradise) di una carriera cronologicamente estesa e prolifica.
Raft, ispirato alla traversata del Pacifico su zattere organizzata da Vital Alsar nel 1973, la più lunga di questo tipo mai documentata, va a completare un’ipotetica trilogia avviata nel 2013 e dedicata ai suoni di quell’Oceano e al folklore dei popoli che vi si affacciano.
Rispetto ai suoi due predecessori, White Shadows In The South Seas e Fratello Mare, questo nuovo capitolo appare ancora più liquido e marittimo, ipnotico e sognante.
Nei sette brani in scaletta, che trovano il loro culmine nei dodici minuti di docile e avvolgente psichedelia di “Las Balsas”, Mike si affida, come suo solito, a pochi ed essenziali strumenti (qualche synth e la fidata chitarra lap steel) per realizzare l’immaginaria colonna sonora di una navigazione in solitaria, dove tradizione folk, atmosfera esotica e arpeggi jazz si rincorrono e svaniscono in tappeti di etereo minimalismo ambientale.
Se negli ultimi anni la proposta di Cooper si è fatta sempre più sospesa, onirica e lisergica, Raft è il coronamento di un intenso viaggio tra passato e introspezione.
Nicolò Arpinati
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