Si intitola American Epic un progetto durato un decennio per catturare la magia dei pionieri della registrazione sonora negli anni venti in America è protagonista di una serie di docu-film sui protagonisti di quell’epoca e un filmato dedicato alle session in cui una serie di musicisti contemporanei si è prestata a incidere utilizzando l’apparato ricostruito appositamente per l’occasione.
I filmati d’epoca sono commentati da Robert Redford, uno dei produttori esecutivi dell’ambiziosa opera da lui definita “America’s greatest untold story”, e sono integrati da un box di 100 brani riportati alla freschezza degli originali grazie a un “reverse engineering” basato su un mix di apparecchiature vintage e moderne.
La parte più interessante dell’operazione è il coinvolgimento di una serie di artisti che, con la produzione di Jack White e T-Bone Burnett, hanno accettato la sfida di incidere la propria interpretazione della musica tradizionale nelle stesse condizioni degli artisti di un secolo fa, nei 3 minuti circa offerti dalle macchine riprodotte con cura in anni di lavoro.
Sono tutte quindi inesorabilmente ‘live’ le performance di Alabama Shakes, Stephen Stills, The Americans, Ana Gabriel, Ashley Monroe, The Avett Brothers, Beck, Bettye LaVette, Bobby Ingano, Elton John, Frank Fairfield, Jerron “Blind Boy” Paxton, Los Lobos, Lost Bayou Ramblers, Nas, Pokey LaFarge, Raphael Saadiq, Rhiannon Giddens, Steve Martin e Edie Brickell, Taj Mahal, Jack White, Willie Nelson e Merle Haggard.
La musica che rivive nelle loro voci e nei loro strumenti è quella delle prime incisioni storiche ed è una miscela di tradizioni diverse, da quella bianca dei monti Appalachi al gospel e al blues del delta del Mississippi, dalla musica hawaiiana a quella dei confini con il Messico o al cajun della Louisiana.
Si intitola American Epic – The Sessions l’album pubblicato da Sony/Columbia contenente una trentina di brani in cui è possibile ascoltare strumenti e stili della tradizione suonati da musicisti che ne riconoscono in questo modo l’importanza storica e il valore culturale.
Inutile dire che la scelta dei produttori non poteva essere migliore.
Dagli inizi della sua carriera T-Bone Burnett ha dimostrato nei fatti la grande conoscenza del patrimonio musicale americano, testimoniata dal lavoro di produttore per decine di grandi artisti ma soprattutto da colonne sonore come quelle di Brother Where Are Thou? (Fratello dove sei?) dei fratelli Cohen, Cold Mountain, Crazy Heart, True Detective.
Che Jack White poi sia innamorato profondamente della musica tradizionale è ormai cosa nota e il suo impegno non si limita alle produzioni personali, come testimonia questo lavoro.
Se poi coinvolge nel progetto un personaggio teoricamente estraneo per nascita e contesto come Elton John lo fa con la solita efficacia in “2 Fingers of Whiskey” in cui la sua elettrica duetta con il pianista.
Quanto a “sana ignoranza” gli è pari forse solo Brittany Howard degli Alabama Shakes, che interpreta “Killer Diller Blues” con grinta impareggiabile.
Un altro famoso attore che, come Redford, si presta al progetto è Steve Martin che – noto da sempre anche come banjoista – offre una versione molto vicina agli originali della ballad “The Cuckoo” con Edie Brickell alla voce.
I Los Lobos mettono da parte la strumentazione elettrica per entrare nei panni di una band mariachi nella frizzante “El Cascabel”, mentre gli Avett Brothers, moderni alfieri della tradizione, reinterpretano “Closer Walk with Thee” con rigore filologico pari a quello della “Candy Man” suonata e cantata da un intenso Blind Boy Paxton.
Difficile indicare i punti chiave di una raccolta così varia, ma accanto al minimalismo orgogliosamente “laid back” di due grandi vecchi della country music come Willie Nelson e Merle Haggard (“The Only Man Wilder Than Me”) vale sicuramente la pena di ascoltare il crossover rap della superstar Nas nell’intrigante interpretazione di “On the Road Again”.
Jack White, dal suo conto, si riserva un paio di quadretti dalle tinte teatrali come “Mama’s Angel Child” e la variopinta “Matrimonial Intentions” con tutte le sue citazioni, ma quanto a colori se la deve vedere con gli ineffabili Hawaiians che propongono le efficacissime “Tomi Tomi” e “Hilo Hanakahi” a colpi di steel guitar e yodel.
Naviga in acque a lui particolarmente congeniali Taj Mahal, che ruggisce da par suo in “High Water Everywhere”, a diretto confronto con la performance più moderata ma altrettanto fascinosa di un altro vecchio leone come Stephen Stills alle prese con il Robert Johnson di “Come On in My Kitchen”.
L’appeal di White e Burnett riesce a coinvolgere Beck nell’ipnotico gospel “Fourteen Rivers, Fourteen Floods” e persino i rocker losangelini The Americans, che lasciano da parte per un attimo i giubbotti di cuoio per trasformarsi in ottima old time string band per una perfetta interpretazione del classico “Sail Away Ladies” con tutti i crismi offerti da banjo, fiddle, washboard.
Nell’ascolto in generale si apprezzano i suoni cristallini, realistici, decisamente “in the face” delle registrazioni e l’immediatezza della musica registrata così “brutalmente”.
Ma non è solo questo.
American Epic è un monumento alla ricca tradizione americana, un atto d’amore e un’operazione culturale di altissimo valore che riporta alla luce artisti e musica ormai a rischio cancellazione.
E sono qui le radici del rock e di tanta musica che siamo abituati a considerare “moderna”.
Stefano Tavernese
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