Lo abbiamo visto tutti, visto e rivisto sicuramente. Quasi non sapendo, credo, che prima di essere un film straordinario, La leggenda del pianista sull’oceano è stato ed è ancora un testo scritto con l’intento di raccontare una storia. Se hai una storia non sei perduto veramente, dicono nel film. Se hai una storia da raccontare, non sei solo. Una storia ti accompagna, sempre.
Imparare le poesie a memoria
In un’intervista alla televisione, negli anni ’80, chiesero a Italo Calvino, cosa fosse utile, secondo lui, portare con sé stessi per affrontare il nuovo millennio. Circa vent’anni prima del famoso salto negli anni duemila, lo scrittore italiano pronunciò alcune frasi, con una calma ed una lentezza che, viste oggi, potrebbero turbare il nuovo fruitore, abituato alla nuova velocità del tempo.
Tra le tre cose che suggerì, una mi fece sorridere di piacere, quel piacere che si prova quando uno scrittore di riferimento, che ho letto da bambino, da adolescente e da adulto, annuncia una cosa in cui credi fermamente: «Imparare poesie a memoria».
Semplicemente questo, perché le poesie a memoria ci tengono compagnia nei momenti di solitudine. Avrebbe mai pensato Calvino, di vedere un mondo dove la memoria sta perdendo il suo potere?
Novecento è anche questo. Un breve racconto nel quale immergersi e leggere ripetutamente le stesse battute, per immaginare i personaggi del libro, per provare ad annusare in lontananza l’odore della terza classe del Virginian, dove profughi cercavano fortuna ed un nuovo futuro in un paese lontano: l’America.
Abbiamo visto il film sicuramente e non voglio minimamente fermarmi a disquisire se la pellicola sia migliore o peggiore del libro, non mi interessa. Ricordo solo che, in un’estate calda, trascorsa tra un esame universitario e l’altro, mentre mi rilassavo un po’ in un parco in compagnia di amici, iniziai a leggerlo ad alta voce, per coinvolgere le persone che mi stavano accanto.
Dopo le prime iniziali risate, in molti si fermarono ad ascoltare la storia, questa storia, ed oggi provo nuovamente a ripercorrerla nella mia memoria, poiché, a causa di un trasloco non ancora concluso, il libro è ancora ben custodito in qualche scatolone in cantina, che aspetta di essere raggiunto. Per fortuna ho una discreta memoria.
Leggere ad alta voce per immaginare
Quel giorno d’estate immaginammo tutti, per qualche secondo, la sigaretta poggiata sul pianoforte mentre Jelli Roll Morton, l’inventore del jazz, suonava sfiorando i tasti del pianoforte, per l’estasi del pubblico, e la cenere che per magia restava attaccata alla sigaretta che, lentamente, per tutta la durata del brano, si consumava.
Ridemmo tutti alla battuta finale «E in culo anche il jazz». [Baricco A. 1994]
Ci immaginammo tutti migranti, poveri lavoratori che, per sbarcare il lunario, ci massacravamo a turni estenuanti, come topi di stiva in una fumosa e lurida sala macchine, spalando carbone da infilare nelle caldaie della nave e ci ammazzavamo dalle risate leggendo i nomi dei cavalli da corsa che tanto facevano ridere Danny Boodman.
Ad un certo punto, mentre leggevo, ormai in piedi, di fronte ad un discreto pubblico, fatto di amici e passanti, mi sono fermato, proprio come Novecento, su quella scaletta, quando si era deciso a scendere dal piroscafo. Come si fa a non fermarsi un attimo e guardarla, quella vastità di strade, vicoli e palazzi. Come si fa a non essere d’accordo con le sue parole, raccontate all’amico, prima di saltare in aria insieme alla nave.
Nuovi o vecchi occhi per guardare l’orizzonte
Vi siete mai interrogati sul senso di quella vastità, di quella tastiera di pianoforte che ha ottantotto tasti, con i quali puoi creare musica all’infinito e sulla vastità delle scelte, delle possibilità, delle sensazioni ed emozioni che ogni giorno attraversiamo nella nostra vita, muovendoci su tasti che non sono solo i nostri.
A volte non sappiamo dove andare, non sappiamo che fare, non sappiamo che cosa vedere alla tv, perché la scelta è enorme, ampia, vastissima. A volte siamo come Novecento, fermi, su quella scaletta, con il cappotto di cammello che indossiamo, che ci sta benissimo addosso, ma che non ci protegge da un mondo che non conosciamo.
Per un momento sono stato d’accordo con lui. Non scendere fu la cosa giusta. Poi mi sono accorto che, per quanto fosse strano ammetterlo, sarei sceso, avrei cercato altro. Avrei sfidato il pianoforte più grande, quei tasti infiniti che lui stesso non ebbe la forza di provare. Ma attenzione, non sto giudicando Novecento, sto solo giudicando me stesso, come giudichiamo noi stessi quando, attraverso le narrazioni di storie straordinarie, riusciamo a fermarci e provare a rimetterci in gioco.
Vi è un quadro tipico del secolo del romanticismo, dove un uomo, sulla montagna, ammira la vastità dell’orizzonte, contemplando l’infinito.
La stessa cosa accade a Novecento, ma la sua contemplazione si ferma su una scaletta e poi accade qualcosa di inaspettato. Il senso della tragedia greca si gioca in quel momento, nel momento in cui accade qualcosa che muta il corso degli eventi e trasforma il senso della storia. Novecento si blocca e torna indietro. Questo atto, questo ritrarsi e tornare, mi pone di fronte ad una considerazione.
Il ‘900, come secolo, è l’inizio della fine dei valori dell’occidente. In un articolo in cui parlavo di Herman Hesse e del suo “Lupo della steppa”, ponevo la questione della decadenza dello spirito dell’occidente. Con quel gesto, con li ritrarsi dalla discesa della scala Novecento lo suggella.
Entra in scena un vecchio elemento, che appartiene alla filosofia antica e che il pensiero dell’occidente, proprio all’inizio del ‘900 ritrova: il perturbante.
Nel quadro prima citato, la contemplazione, lo stupore e la meraviglia nell’ammirare lo spazio infinito che si palesa guardando dalla vetta di una montagna, non ha nulla di perturbante. Il mondo è un luogo sicuro, poiché lo spirito dell’occidente, nel romanticismo, ha un legame indissolubile tra il mondo finito e il mondo infinito.
Nel ‘900, il nostro protagonista si scontra, invece, con un nuovo (anche se vecchio) modo di vedere il mondo. La meraviglia, lo stupore, che già Platone ed Aristotele conoscevano bene, portano con sé il perturbante, l’apertura verso l’ignoto, verso l’abisso dell’ignoto, che scuote e genera vertigine. Porta con sé tutto il fascino e la potenza della bellezza, ma al tempo stesso contiene il germe del nulla, del non conoscibile.
Novecento e la scelta della fine
Non vi sto dicendo che Novecento è un codardo e non è stato in grado di affrontare quella sensazione di deprivazione ed angoscia che porta con se lo stupore e la meraviglia. Non vi sto dicendo che Novecento non ha saputo reggere la pressione del perturbante. Sto solo cercando di riflettere su quanto, spesso, la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di meravigliosamente bello, porti con sé anche il meravigliosamente destabilizzante e solo quando entrambe le componenti sono presenti, solo allora siamo di fronte ad una verità che merita di essere scoperta.
Novecento, ha fatto un’altra scelta. Nel tempo aveva maturato un’altra consapevolezza, la più grande, la più difficile da accettare per chiunque. L’idea della morte, l’idea della fine. Seduto su una cassa di esplosivo, suona le sue ultime note, avendo vissuto con la consapevolezza che su questo mondo siamo di passaggio.
Lo abbiamo visto tutti il film. Lo abbiamo immaginato tutti lo sguardo di Novecento, l’ultimo sguardo, prima della fine.
Boom!
È meraviglioso quando abbiamo una storia da raccontare, perché è proprio vero che non siamo mai soli. Buona lettura…
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