È chitarrista e multistrumentista raffinato, dotato di quel tipo di sensibilità musicale che ha attirato l’attenzione di De André all’inizio degli anni ’90, al punto di tenerlo con sé per quasi un decennio – praticamente fino alla sua scomparsa – condividendo il palco alle prese con il ricco repertorio derivato dalle celebri canzoni del passato e da album straordinari come Crêuza de mä, Le nuvole, Anime salve.
A vent’anni dalla morte del grande cantautore genovese, Giorgio Cordini ha pubblicato per fingerpicking.net un libro intitolato I miei otto anni con Fabrizio De André, in cui rievoca questo periodo magico della sua carriera.
Tra le perle del libro l’intervista realizzata nel 1992 dalla moglie di Giorgio, Luisa Moleri, che inquadra argomenti fondamentali per comprendere l’artista e un intero periodo storico della musica italiana con qualche sorprendente affermazione sul valore della canzone e sulla politica.
Qual è il tuo lavoro? Tu dici che scrivere delle canzoni non è un lavoro.
Non può essere un lavoro perché la creatività non si può programmare, non puoi programmare niente. Si può programmare la fine di un disco una volta che però l’hai fatto… nel momento in cui lo pensi, o sei creativo o non sei creativo. Io mi fido di me e quando penso di essere creativo scrivo, quando invece penso di non esserlo scrivo e butto via. Ma sì in effetti un mestiere vero potrebbe essere quello dell’agricoltore o dell’allevatore di bestiame.
Ma quando hai cominciato a scrivere canzoni, perché lo facevi? Per lanciare dei messaggi a qualcuno?
Assolutamente no, era un mio modo per emergere all’interno di quella microsocietà della famiglia, dove avevo un padre che era un brillantissimo professore che si era dedicato all’insegnamento e che emergeva nel suo campo, grande organizzatore, un uomo di grande intelligenza e capacità. Dall’altra parte mio fratello, che il voto minore che prendeva a scuola era 10. Quindi una competitività sfrenata, insegnatami fin da piccolo.
A questo punto mi era sembrato, dopo aver preso la media del cinque e mezzo in italiano. tra l’altro, perché il tema non era organico, e avendo sicuramente un buon orecchio musicale e la tendenza ad occuparmi di musica anche manualmente, perché suonavo la chitarra già da quando avevo quattordici anni, avevo pensato che forse la maniera più giusta per emergere sarebbe stata quella. Anche perché pare che l’ambiente limitrofo plaudisse il fatto che io imparassi a suonare uno strumento.
Quindi sei stato incoraggiato da…
…da una grande competitività all’interno della famiglia e dalla ricerca di uno sbocco che non fosse quello ufficiale: quindi il diploma a scuola e poi la professione.
Al di là del fatto che tu non hai scelto di scrivere canzoni per lanciare messaggi a nessuno…
Il messaggio era implicito, l’avrei lanciato probabilmente da una tribuna politica.
Tuttavia tu credi nella forza delle canzoni per cambiare la gente, la sua mentalità?
Io credo che le canzoni, come qualsiasi altro fatto artistico, se di arte ce n’è nelle canzoni, debbano necessariamente avere all’interno e quindi essere dettate, da parte di chi le scrive, di chi le compone, di chi le canta, di uno spirito progressista. L’arte è progressista.
Il fatto poi che queste canzoni possano riuscire in qualche maniera a modificare quello che è un livello di coscienza personale o collettivo ho i miei forti dubbi. Credo che incidano in maniera molto superficiale, a livello epidermico. Non credo, dato che parliamo di medicina, a un livello sottocutaneo o endovenoso. Epidermico e non ipodermico
Mi ricordo che quando ero ragazzina alcune tue canzoni erano proprio proibite, anzi che Fabrizio De André era proibito e che noi ti ascoltavamo un po’ di nascosto. Poi, a un certo punto della storia, qualche anno dopo, le tue canzoni sono entrate addirittura nelle antologie scolastiche, alcune di queste come espressione della poesia contemporanea.
In questo cambiamento, tu come ti sei trovato? Ti sei sentito un po’ il nuovo giullare di corte, oppure hai pensato che fosse il sistema a cambiare?
Mah, allora no. Allora non si poteva parlare di giullari di corte per il fatto che noi che esprimevamo appunto idee progressiste e di sinistra eravamo seguiti da una massa di persone che avevano tutti quanti i diritti e forse anche i doveri per appartenere a quel tipo di mondo.
E non soltanto dal punto di vista economico, ma anche dal punto di vista prettamente idealistico, anzi purtroppo un po’ troppo ideologico e non abbastanza idealistico.
Noi facevamo un po’ la figura dell’avanguardia di questo tipo di mondo, un movimento che aveva un preciso riferimento in tutta quanta la sinistra che guardava al PCI. E poi sai com’è andata, perché il socialismo reale ha fatto disastri pazzeschi dappertutto.
Quindi non eravamo affatto dei giullari di corte, eravamo invece i portavoce di questa parte, voglio dire del popolo che continuava a chiedere istanze all’altra parte.
Il rischio di diventare giullare di corte è adesso, momento in cui con il crollo dell’ideologia comunista (e mi va bene così perché io sono libertario e mi fa anche piacere che sia crollata) purtroppo anche dal punto di vista culturale non esiste più l’ideologia di sinistra e non esiste più un tentativo serio, indipendentemente dai partiti politici, di trovare un sistema equo per far funzionare meglio le cose dal punto di vista sociale.
Direi che la cultura è sicuramente tutta quanta diventata piccolo borghese. Oggi non ci sono più le parti. Allora no, allora l’idealismo era ben preciso, la connotazione era ben precisa, anche se c’è ancora qualcuno che si indigna, eh!
Quindi anche il fatto di finire sulle antologie era una vittoria su un certo sistema.
Ma sicuramente, tante sono le vittorie conseguite. Era una vittoria, una vittoria dal punto di vista anche ufficiale. Adesso, non stiamo a parlare delle leggi su aborto e divorzio, che sono conquiste enormi, sono conquiste derivate da quelle che erano state fatte precedentemente nel ’68, vale a dire, per esempio, la libertà sessuale, adesso messa in grossa difficoltà da questa maledetta malattia.
L’altra è la libertà di informazione, che naturalmente era figlia della libertà di stampa, e anche questa libertà si era ottenuta attraverso il ’68. Ora anche questa sta regredendo per l’assalto dato dai grandi editori; la legge Mammì direi che è un pezzo di paglia a tappare un buco in una barca… [ride]
Il resto dell’articolo su Chitarra Acustica n.03/19.
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