Studio Universal ha recentemente presentato Score – La musica nei film, documentario sul mondo della composizione musicale per il cinema. Nell’articolo Sound and Vision ne abbiamo approfittato per conversare con alcuni celebri autori di colonne sonore come Piovani nel tentativo di scoprire cos’è la musica da film e in che direzione sta andando.
Cosa sarebbe Guerre Stellari senza la musica di John Williams? E riuscite a immaginare Lawrence d’Arabia senza la partitura di Maurice Jarre? Per non parlare dei thriller di Alfred Hitchcock privati del fondamentale apporto di Bernard Herrmann.
Se non esistesse il tema di Tara, Via col vento ci commuoverebbe allo stesso modo?
Così introduce l’articolo Rosario Sparti sul Mucchio di febbraio
Per anni il nome di Nicola Piovani è suonato erroneamente come uno pseudonimo di Ennio Morricone alle orecchie americane; finché nel 1999, al momento di ritirare l’Oscar per le musiche di La vita è bella, fu chiaro a tutti che si trattava di una persona in carne e ossa.
E non un compositore come tanti, bensì l’erede di Nino Rota nel cinema di Fellini.
Noto per lo stile sobrio ma riconoscibile delle sue composizioni, il Maestro Piovani ha attraversato quasi cinquant’anni di cinema collaborando con i maggiori registi italiani.
La “Musica da film” è un vero e proprio genere?
No, non esiste un genere stilistico “Musica da film”. La musica per il cinema a volte porta la firma di Shostakovich, a volte di Miles Davis, a volte di Philip Glass, a volte di Lelio Luttazzi, a volte di Bernstein, a volte di Pippo Barzizza. Credo che l’indicazione “Musica da film” indichi una vera libertà linguistica e stilistica, una varietà lessicale che questa dizione comporta.
Ma qual è il ruolo della musica in un film?
Non c’è un ruolo solo nell’impiego della musica nel cinema: si pensi alla differenza fra l’uso che ne fa Dino Risi, quasi sempre musica di repertorio, musichette diegetiche, oggettive, cioè musiche che i personaggi stessi ascoltano e che al loro mondo appartengono, e a quello che ne fa Fellini, quasi sempre commento esterno, sentimento dell’autore verso i soggetti inquadrati; o quello che ne fa Sorrentino, compilation di musiche preesistenti usate in funzione di commento.
Abitualmente compone partendo dalla lettura della sceneggiatura?
Parto dalla sceneggiatura, certo, e ancor di più dal racconto che il regista mi fa del film che vuol girare. Ma poi le immagini, le sequenze montate comandano, dettano legge, e in funzione di queste si modificano le partiture, le orchestrazioni, le esecuzioni. Succede sempre.
Pensa che la colonna sonora ideale sia legata alla creazione di un tema musicale?
Dipende dal film: alcuni sono più “tematici”, per così dire. Altri necessitano invece di ricerche timbriche, ritmiche. Il musicista del cinema deve essere pronto a scrivere un po’ di tutto, da una fuga a una samba, da una Toccata a un Cha cha cha.
Deve essere un musicista elastico o, come dice qualcuno, una “puttana” musicale.
La musica per film, in teoria subordinata ai desideri del regista, consente comunque di sperimentare?
Ho cominciato a fare il compositore in un mondo in cui nelle sale da concerto si eseguiva solo musica classica o d’avanguardia, e nella musica commerciale la super semplificazione voluta era obbligatoria. Il mercato vietava la complessità, come l’intellettualismo egemone vietava la melodia.
La musica del cinema lasciava invece ampio campo alla sperimentazione di linguaggi trasversali, ibridi. Potevi scrivere partiture complesse ma non in linea con i dettami post-dodecafonici della musica accademica.
La musica da film, quando è ben fatta, non è “subordinata ai desideri del regista”, bensì legata profondamente alla storia che si racconta, alla poetica di chi la gira. Così come accadeva nel melodramma: la storia, il libretto guidano la partitura.
Nel cinema, naturalmente, il ruolo della musica è molto più appartato che nell’Opera.
Una parte della sua attività è dedicata alle musiche di scena, forse per questo – oltre a una certa malinconia delle melodie – le sue composizioni ricordano quelle di Fiorenzo Carpi.
Fiorenzo Carpi, grande compositore e amico, è stato il vero maestro di tutti quelli che scrivono musica di scena in Italia. E non solo in Italia. Se non fosse esistito lui, avremmo scritto in modo diverso per il teatro, io e i miei colleghi.
La poca attenzione che in Italia si dedica alla sua opera la dice lunga sul Paese, sempre pronto a definire genio qualsiasi cantautore pop solo perché è molto venduto.
Venduto è una parola ambigua.
Come nacque la collaborazione con Fellini? Si dice che le richieste a Nino Rota ruotassero sempre intorno ad alcune canzonette amate in gioventù dal regista: è andata così anche con lei?
Proprio così: lui partiva dalle musiche che aveva nel cuore – una decina, non di più – “Abatjour”, “Coimbra”, “El Relicario”… Ma erano suggestioni di partenza, poi si volava altrove, anche in luoghi musicali lontanissimi da quelli.
Ci incontrammo nel modo più normale possibile: mi fece telefonare dal suo aiuto regista che mi propose un incontro nel suo ufficio di Cinecittà, sopra il Teatro Cinque.
Ci vedemmo dopo due giorni e per parecchi anni ho lavorato costantemente con lui.
C’è un film che ha cambiato il suo modo di pensare la musica per il cinema?
8 e 1/2 di Fellini. E i film di Kieslowski musicati da Zbigniew Preisner.
Rosario Sparti
Il resto dell’articolo è sul Mucchio n.763 del febbraio 2018.
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