Ancora un lutto nel mondo della batteria in questo inizio 2020 davvero devastante. Lo scorso 17 febbraio si è spento a 76 anni uno dei maestri del batterismo jazz europeo, il norvegese Jon Christensen, protagonista di decine di incisioni per la ECM.
La notizia della morte è stata data dalla moglie, l’attrice, regista ed ex ministra della Cultura norvegese Ellen Horn, in un post su Facebook in cui ha riferito che il batterista è morto serenamente mentre dormiva.
Nativo di Oslo (20 marzo 1943), Jon Ivar Christensen era una delle punte di diamante di un’avanguardia europea in cerca sin dai primi anni Settanta di una nuova via espressiva rispetto al jazz mainstream imperante.
Ma dalla tradizione era partito, militando in alcune big band locali sin da quando era adolescente, facendo parte di svariati gruppi e soprattutto divenendo membro della house band del Metropol Jazz Club di Oslo, dove ebbe modo di accompagnare alcuni fuoriclasse statunitensi del jazz trasferitisi nel Vecchio Continente come il pianista Bud Powell e il sassofonista Dexter Gordon, o di passaggio come Ben Webster, Stan Getz, Kenny Dorham e Sonny Rollins.
Tra le collaborazioni del periodo, sfociate in diverse registrazioni per etichette locali, si annovera anche quella con il compositore George Russell, a partire dall’incisione di The Essence of George Russell (1971).
Più o meno coetaneo di altri eccellenti musicisti norvegesi quali il sassofonista Jan Garbarek, il chitarrista Terje Rypdal e il contrabbassista Arild Andersen, Christiansen aveva inciso nel 1970 per l’etichetta ECM proprio con questa formazione, nominalmente guidata da Garbarek, l’album Afric Pepperbird in cui è già piuttosto evidente la sua personale concezione del ritmo, pensato in maniera ‘elastica’, eseguito in termini di ‘ondate sonore’ e scandito molto più spesso in maniera binaria rispetto alla pronuncia in terzine da sempre prevalente nel jazz.
Molto più in là nel tempo e nella carriera, intervistato dalla rivista statunitense Modern Drummer (2005), Così il batterista norvegese avrebbe raccontato il suo modo di ‘sentire’ il tempo: “Se sto suonando con un gruppo un medium in 4/4 e sento di volerlo ‘allargare’ un po’, posso uscire dal tempo metronomico o fermarmi del tutto, ma so sempre esattamente dove mi trovo. Semplicemente, evito di sottolineare l’1 e di preparare l’arrivo del bridge con un fill. Ho sempre cercato di evitare questo tipo di cose, provando piuttosto a suonare a ondate“.
Una concezione assai personale, come del resto quella di beat, espressa sempre nella stessa intervista: “Puoi entrare in un jazz club martedì alle otto in punto e suonare un solo colpo di piatto, quindi tornare in quel club esattamente una settimana dopo e suonare un altro colpo di piatto. La gente penserà che quei due eventi non hanno nulla in comune. Ma quello è un beat!“.
Altre importanti incisioni degli anni Settanta furono quelle realizzate col pianista svedese Bobo Stenson (Underwear, 1971), ancora con Garbarek (Witchi-Tai-To, 1973), Rypdal (Waves, 1977), oltre a quelle targate ECM a firma tra gli altri del chitarrista Ralph Towner (Solstice, 1975) e del nostro Enrico Rava (The Pilgrim and The Stars, 1975).
La grande flessibilità ritmica del batterista e il suono asciutto del suo piatto (un ride Zildjian Istanbul K da 22″) divennero dei veri e propri marchi di fabbrica sonori dell’etichetta, con la quale Christensen ha in tutto registrato ben 55 album.
Probabilmente la collaborazione più conosciuta del periodo resta però quella con il pianista Keith Jarrett, che lo chiamò in un quartetto ‘europeo’ comprendente Garbarek e l’eccellente contrabbassista svedese Palle Danielsson (Belonging, 1974).
Del 1976 è il primo e unico disco realizzato a proprio nome da Christensen, No Time For Time, con Arild Andersen, Terje Rypdal e un altro batterista, Pål Thowsen.
Dai primi anni ’80 e per circa un decennio il batterista norvegese co-diresse con il fido Andersen la band Masqualero, in cui per un periodo militò il trombettista Nils Petter Molvær, destinato a una propria interessante e originale carriera come leader.
Diventato un punto di riferimento per molti batteristi in tutto il Mondo, Christensen ha sempre vissuto con estrema modestia questa sua condizione di ‘ispiratore’: “Sono sempre stato ingaggiato per suonare come suono. Alcuni giornalisti hanno cominciato a scrivere che ero un batterista innovativo e gente dal Giappone e dall’Europa ha iniziato a provare a suonare come me. Solo allora mi sono detto: Hmmm, forse ho fatto qualcosa di originale, dopotutto…”.
A giudizio del virtuoso contrabbassista Miroslav Vitous, Jon Christensen era comunque uno dei pochi batteristi europei in grado di swingare come un americano; negli USA i dischi ECM sono stati spesso criticati proprio per la loro mancanza di swing e groove.
Così si pronunciava in proposito il musicista norvegese in un’intervista del settembre 1985 a Modern Drummer: “All’inizio siamo stati tutti influenzati dalla musica e dagli artisti americani. Poi abbiamo iniziato a trovare cose più originali, sempre più presenti nel nostro modo di suonre. Quando trovi il tuo stile diviene sempre meno condizionato dall’influenza americana. Quanto allo ‘swing’, è difficile da definire (…). In anni recenti ci sono stati così tanti stili e tipi di musica a disposizione che possono essere sintetizzati e mischiati che è sempre più difficile etichettare cosa sia jazz e cosa no. Musica folk, classica, rock, punk, reggae, e tanta altra ancora. It’s all music“.
Il suo suono ruvido, il suo drumming raffinato ma pieno di energia hanno continuato a impreziosire nei decenni successivi svariate band e numerosi album. In tempi più recenti il batterista norvegese, oltre a riprendere collaborazioni storiche come quella con Stenson, ha avviato un sodalizio col giovane chitarrista e compatriota Jacob Young.
Intervistato dal portale All About Jazz, Young ha parlato di Christensen come del vero ‘regista’ del gruppo: “Può far andare il brano in qualsiasi direzione lui desideri“.
Tra le incisioni più recenti si possono ricordare quella in trio con un altro chitarrista di casa ECM, Jakob Bro, con il contrabbassista Thomas Morgan (Gefion, 2015), o quella della stessa formazione aumentata a quartetto con l’aggiunta del trombettista Palle Mikkelborg (Returnings, 2018).
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