Il tapping, tecnica chitarristica amata e odiata, chi se ne innamora e la porta all’estremo muovendo le dita come “ragni” sulla tastiera, chi la rifugge ritenendola un inutile carrillon vistuosistico.
Negli ultimi anni tutti sarete venuti a conoscenza del video virale su youtube, quello che ritrae l’italiano Vittorio Camardese nel 1965 che suona in tapping con notevole scioltezza, video intitolato provocatoriamente “Van Halen did NOT invent tapping!!”.
Purtroppo, come spesso accade, da una bella e legittima curiosità questa è diventata una sorta di filastrocca da post, rintracciabile spesso sotto i video dello straordinario chitarrista olandese virtuoso fondatore dell’omonima band. Un po’ come il “meditate gente meditate” o altri modi di dire che sono ben presto una sorta di intercalare senza più contatto con la realtà.
Se poi ci mettiamo la nostra tendenza all’orgoglio nazionale (quello un po’ da bar), apriti cielo.
Allora, cerchiamo di ristabilire questo contatto, con un piccolo excursus storico.
Prima di tutto, no, neanche il nostro amato italiano originario della Basilicata ha “inventato” il tapping.
Questa tecnica prevede la percussione delle note sulla tastiera con la mano destra (o sinistra per i mancini), così da creare quei tipici intrecci sonori dati dal variare la posizione delle due mani e delle note eseguite, legate insieme. Confessiamolo, è molto più facile farlo (almeno nella forma più semplice) che dirlo.
Se a questo si aggiunge una buona dote di distorsione, l’effetto che si ottiene è sorprendente per chi ascolta.
Il fatto che questa tecnica sia stata approfondita e poi chiamata “tapping”, non vuol dire che prima nessuno avesse avuto l’idea di mettere un dito sulle corde e vedere cosa succedeva. Anche un bambino, prima o poi, per caso, muoverebbe le sue mani in quel modo.
Quindi sgombriamo il campo dalle bizzarre ipotesi che qualcuno abbia “inventato” il tapping. Casomai, c’è stata sicuramente l’evoluzione (non sempre lineare) del suo uso.
Che ci crediate o no, già nel 1932 ne abbiamo un esempio. E indovinate, non sulla chitarra ma… sull’ukulele. Si tratta del funambolico Roy Smeck, guardatelo all’opera in questo video, in particolare a 1.26.
Tapping a 8 dita! Invenzione dei tempi moderni? Evoluzione dei più grandi shredder dagli ’80 in poi? Anche qui, ricredetevi, Jimmie Webster negli anni ’50 già dava lezioni. Certo, il genere è molto, molto diverso, non vi aspettate scorribande heavy metal…
1960, il giovane Dave Bunker presenta in tv il suo strumento, una sorta di chitarra/basso a doppio manico (Duo-Lectar). Provate a dire in che modo lo suona? Ok stavolta non è proprio il tapping chitarristico classico, ma parliamoci chiaro, se ha messo le mani su due manici, impossibile pensare che non le avesse già usate insieme su uno solo!
Si arriva quindi al 1965 e al nostro Vittorio Camardese, non scordandoci che qualcosina in proto-tapping anche altri jazzisti l’avevano fatta, anche nomi importanti come Barney Kessel. Ma è innegabile, quello che Camardese riusciva a fare era sicuramente la cosa più simile a quello che avrebbero fatto i rockettari più avanti.
Rocker che non stavano lì a guardare comunque e probabilmente si ispirarono a vicenda, più che essere entrati in contatto con un italiano (per loro) meno conosciuto.
Citiamo innanzitutto il grandissimo Steve Hackett, che nel 1971 incideva un album progressive rock importantissimo con i suoi Genesis, Nursery Cryme, e lo condiva con un tapping che suona come siamo abituati a sentirlo, per quanto in forma ancora decisamente semplice. Eccolo nell’intro di “The Return of the Giant Hogweed”.
Nel 1977 Brian May, lui stesso grande fan di Hackett, riprendeva la tecnica per “It’s Late”, nell’album dei Queen, News of the World. Ecco apparire qui i bending e quel tipico effetto “miagolante” che ne risulta.
Alla fine degli anni ’70, infine, certo erano molti i chitarristi che tentavano di inserire questa tecnica qua e là nel proprio stile. Ma tra inserire qualcosa in un playing e fare della tecnica stessa un vero e proprio stile chitarristico, beh, diamo a Cesare ciò che è di Cesare: thanks Mr. Van Halen!
Troviamo non ci sia molto da dire su questo, nel 1978 esce il primo album della band e mette subito le cose in chiaro con “Eruption”, con l’assolo di “You Really Got Me” e via dicendo. Una delle cose precedenti che potete ascoltare, vicine al sound di Van Halen, sono le sperimentazioni di inizio ’70 da parte di Harvey Mandel. In questo brano ad esempio, come pirotecnico e cortissimo finale (a 3.20).
Ciò che però era un abbellimento, un inserto virtuosistico, Eddie Van Halen ne fece uno strumento ben più articolato e musicale, unendolo ad altre tecniche e ovviamente al suo caratteristico sound e a un groove che ben pochi chitarristi hard rock potevano vantare.
Praticamente la maggior parte dei suoi famosi colleghi, intervistati su Van Halen, hanno affermato che lui con in mano la loro chitarra… aveva lo stesso tipico suono. Il che significa aver fatto ben più di un semplice esercizio di copiatura.
Lo sa bene Stanley Jordan, che negli anni ’80 darà a suo modo un significato profondo al suonare in tapping (per quanto di nicchia). Lo sanno le centinaia di grandi chitarristi che hanno utilizzato questa tecnica, anno dopo anno e sempre con maggiore difficoltà, fino ad oggi.
Ma questo non è uno scritto per glorificare uno al danno di altri, ma solo per ristabilire un po’ di logica (si spera!) in una visione sempre troppo “competitiva” della storia della musica.
Chi è più bravo? Chi è arrivato prima?
Poco importa, conta solo a che profondità un musicista ha inciso un solco nella storia e quanto ci è rimasto nel cuore.
Ma se non foste d’accordo… diteci la vostra…
Aggiungi Commento