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George Gershwin: popular jazz

Cala la luce, si apre il sipario, un pianoforte occupa il centro di tutto: nero, maestoso, con i suoi tasti che brillano di bianco avorio, ogni suo riflesso fa pregustare un'aria di novità, il pubblico l'attende, spera in questo elegante e sognante ragazzo che sta facendo il suo ingresso, dirigendosi verso quell'impon

Cala la luce, si apre il sipario, un pianoforte occupa il centro di tutto: nero, maestoso, con i suoi tasti che brillano di bianco avorio, ogni suo riflesso fa pregustare un’aria di novità, il pubblico l’attende, spera in questo elegante e sognante ragazzo che sta facendo il suo ingresso, dirigendosi verso quell’imponente pianoforte. Si siede davanti al nero strumento, l’osserva perdendosi nei suoi riflessi mentre il pubblico trattiene il fiato. Un ultimo istante di silenzio.
La musica inizia a scorrere, George Gershwin mostra al suo pubblico la voce dell’America. È l’alba di un nuovo secolo e l’America ha bisogno di scoprire se stessa, è alla ricerca delle sue radici. Come quel pianista sull’oceano immerso nel suo viaggio senza sosta, in bilico tra un passato che non gli appartiene veramente ed un futuro ancora da conquistare. 

George Gershwin: popular jazz

Il popolo Americano è l’innegabile unione di quasi tutte le culture europee e non (inglese, italiana, francese, russa, tedesca ecc…), tante tradizioni (culturali, sociali) hanno creato un caleidoscopico intreccio, dando vita a una società dalle mille sfaccettature che inevitabilmente hanno influenzato anche il panorama musicale.
Nato a Brooklyn nel 1898, secondo di 4 figli, le sue origini affondano sia nella tradizione russa che in quella ebraica. La musica entrò per la prima volta nella sua vita quando sentì un suo compagno di scuola suonare le Humoresque di Dvoràk e non passò molto da questa meravigliosa scoperta al momento in cui un pianoforte entrò in casa Gershwin, inizialmente destinato al primogenito Ira Gershwin.

Molte furono le ore che il piccolo George passò ad esercitarsi al contrario di quanto è stato detto.I suoi primi maestri furono Charles Hambitzer, che lo introdusse ai lavori europei (Debussy, Ravel), e Edward Kilney, che lo guidò tra gl’impervi sentieri dell’armonia. L’entusiasmo e il talento del giovane pianista erano tali che a soli 15 anni, dopo avero lasciato la scuola, George iniziò a lavorare per 15$ alla settimana come “song plugger” per la Jerome H. Remick and Company.

I centinaia di piano rolls incisi agli albori della sua carriera testimoniano la sua evoluzione tecnica e musicale, e sono un chiaro segnale di ciò che sarebbe diventato di lì a poco. La padronanza del ritmo sarà sempre elemento fondamentale nel pensiero musicale gershwiniano. La naturalezza nel suonare rag-time, la spiccata inclinazione per l’improvvisazione, la melodia e la sua giovane età lo rendevano a tutti gli effetti un prodigio. Tra le sue primissime composizioni ricordiamo “When You Want ‘Em, You Can’t Get ‘Em” (1916), “Rialto Ripples” (1917) e la canzone che lo ha consacrato al successo nazionale: “Swanee” (1919) su testi di Irving Caesar ed eseguita per la prima volta da Al Jolson.

Le umili origini e il suo altrettanto umile inizio come song-plugger non fecero altro che alimentare il fuoco della notorietà che bruciava attorno al nome del giovane Gershwin. Per quanto adorasse crogiolarsi nella fama e nella mondanità, raramente rimase inattivo, coglieva ogni occasione per scrivere musica. Lo dimostrano il fatto che la fortunata “Swanee” non fu l’unico vero successo di Gershwin, a questa seguirono moltissime altre songs: la rapida e quasi nervosa “Fascinating Rhythm” (1924), l’elegante “That Certain Feeling” (1925) e la popolarissima “I Got Rhythm” (1930), per citarne alcune.

La magnifica collaborazione con suo fratello Ira Gershwin (abile paroliere) è sicuramente un altro elemento importante dell’incredibile successo di George presso il grande pubblico. George Gershwin creò una quantità imponente di materiale, riuscendo a creare delle linee melodiche tanto eleganti e raffinate quanto facili da ricordare e fischiettare, ed arrivando così al grande pubblico con estrema facilità.

Quest’incredibile dote melodica gli permise un facile ingresso nel mondo dei musical, più precisamente nel mondo di Broadway. Uno dei suoi primi lavori fu “Blue monday Blues” (1922) (che fece parte di una rassegna chiamata George White’s Scandals), un’operetta di un solo atto, scritta in fretta e furia in una sola settimana, dove l’orchestra di Paul Whiteman accompagnava attori bianchi con la faccia pitturata di nero.

Due anni dopo fu la volta della più fortunata “Lady, Be Good” (1924), contenente la famosa e omonima canzone “Oh Lady, Be Good” (1924). Da questo momento in poi la sua fama non fece che crescere, lavorava ininterrottamente, sfornando un musical all’anno: “Tip-Tose” (1925), “Oh, Kay” (1926), “Strike up the Band” (1927), “Rosalie” (1928), “Show Girl” (1929), “Girl Crazy” (1930).

Elemento chiave che portò alla popolarità i musical dei fratelli Gershwin deriva sicuramente dall’elevato numero di brani che successivamente diventavano hit in un singolo spettacolo (in “Oh, Kay” troviamo: “Maybe“, “Clap Yo’ Hands“, “Do, Do, Do“, “Someone to Watch Over Me” e l’omonima “Oh, Kay“) ma soprattutto dalla coerenza stilistica nella quale si collocavano i vari pezzi all’interno dello spettacolo. Per capire ciò bisogna prendere in considerazione il restante panorama dei musical degli anni 20 che circondava Gershwin.

Il musical era (e probabilmente è ancora oggi) una forma d’intrattenimento estremamente popolare. Una storia era raccontata tramite frenetici ballerini che si scatenano sul palcoscenico, musiche altrettanto concitate contornano i loro movimenti con motivi e melodie che rimangono facilmente impresse nella memoria, ed inoltre, molto spesso, le varie scene che componevano lo spettacolo non avevano alcuna coerenza musicale.
In Gershwin questo raramente accadeva, la struttura e la disposizione delle canzoni erano frutto di un’attenta architettura, nella musica stessa, durante scene significative, si trovano continui richiami a brani già eseguiti o anticipazioni a quelli che saranno presentati più avanti.

I satirici e pungenti testi di Ira Gershwin davano quel mordente in più alle splendide melodie del fratello, incrementando la probabilità che i brani rimanessero nella mente della gente (George Gershwin era ossessionato dall’idea che i suoi brani fossero dimenticati, e fu proprio questa ossessione che lo spinse a realizzare il suo famoso Song-Book.

Anche le tematiche presentavano un ruolo di rilievo all’interno del musical, negli anni 20 la distinzione tra bianchi e neri era un tema ancora scottante (in molti spettacoli si utilizzavano attori bianchi con il volto dipinto di nero, spesso anche in modo caricaturale e ricco di luoghi comuni). ma Gershwin portava in seno una vera e propria venerazione per gli spiritual, i gospel e tutta quella sfera musicale definita “nera”. Ne sentiva l’energia, la voleva trasformare (jazz) ed elevare verso l’alto (jazz sinfonico). Tutto questo lo riversava in ogni suo lavoro.

Ma il vero “boom”, quello che attirò lo sguardo dei musicisti “colti” sulla figura di George Gershwin, s’innescherà alla prima di “Rhapsody in Blue” (1924) e successivamente con la folk-opera “Porgy and Bess” (1935).

Il giovane pianista lascia risuonare le ultime note. Il silenzio avvolge tutto, ma la musica appena ascoltata risuona ancora per qualche secondo nella nostra testa. George Gershwin si prende qualche momento, si prepara nuovamente. Esita ancora qualche attimo, tutta la sala trattiene il fiato.Le dita incominciano a muoversi, i tasti si abbassano, le corde vibrano, la musica scorre e il viaggio riprende verso un’altra strada, verso le ambizioni colte di un musicista definito popular, verso le sue paure e le sue battaglie per conquistarsi un posto tra i “compositori seri”.

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