Le parole sono spesso maschere di pensieri complessi e intricati, nervosi spasmi di slanci troppo violenti e solitari per poter essere rivelati così come concepiti; quella di Dmitrij Šostakovič è stata figura capace di destare importanti scatti d’ira fra colleghi, collaboratori e amici, uomo dalla nevrosi impossibile da mascherare, si esprimeva spesso in labirintiche frasi che rincorrevano il proprio senso, calpestandolo poi dopo pochi istanti. Sembra che soltanto nella calma piatta di un bicchiere di vodka Šostakovič trovasse il modo di rientrare nella sfera dell’umanamente “relazionabile”.
Un’ingombrante montatura nera sorresse per anni massicce lenti a fondo di bottiglia, dietro le quali si celavano gli occhi di uno dei giganti della musica del ‘900, non solo russo. Occhi mai fermi, sempre vigili nel rincorrere il minimo segnale di pericolo, per ritrarsi miseramente dietro muri di parole vacue che lasciarono solamente intravedere il fervore di una personalità fra le più devastanti del XX secolo.
Šostakovič fu il compositore della contraddizione, uomo capace di far scaturire i più disparati sentimenti nella mente di chi si trovava in sua compagnia. Bambino, irrequieto, fragile e cagionevole, ed allo stesso tempo dispotico, brillante, duro e forse “d’indole non interamente buona” (1).
Si appassionò fin da adolescente alle poesie di Majakovskij, per il loro lato artistico ancor più che politico, per poi scontrarsi, al culmine degli studi al Conservatorio di Pietrogrado, con l’assurdità dell’ideologia sovietica. Ideologia che lo rincorrerà per tutta la vita, fino all’ultimo dei suoi istanti, come fantasma onnipresente, capace di modificare la percezione del compositore agli occhi altrui, ma fortunatamente mai in grado di oscurarne il fuoco e la spinta vitale.
Il 12 maggio del 1926 fu presentata alla Filarmonica di Leningrado la Sinfonia n°1, che debuttò in un mare di applausi e consensi, forte di un linguaggio moderno in grado di ricevere il benestare del grande Berg, quello dell’infernale “Wozzeck” (1925), che si prodigò immediatamente in una lettera di congratulazioni.
Il tripudio suscitato dalla Sinfonia n°1 fu tale che il Dipartimento per l’Agitazione e la Propaganda della sezione musicale degli Editori di Stato commissionò a Šostakovič un nuovo lavoro per celebrare il decimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre. Šostakovič consegnò quindi la Sinfonia n°2 “Ottobre”, in cui un fluido sonoro dissonante, a tratti acido, intervallato da sezioni di “respiro” affidate al coro, narra i frastagliati eventi che caratterizzarono la rivoluzione e il suo concitato svolgimento, una parabola dal buio pre-rivoluzionario alla luce della venuta di Lenin.
Nel corso degli anni Venti un clima ancora aperto al vento d’avanguardia di provenienza occidentale permise a Šostakovič di assistere in patria al Wozzeck (1925) di Berg, alla rappresentazione di “Der ferne Klang” (1901) di Schreker, come di ascoltare Hindemith, Milhaud e anche qualche assaggio di jazz grazie a delle tournèe americane in territorio russo.
Gli anni Venti incarnano il periodo artisticamente più “sovversivo” di Šostakovič, che trovò sfogo anche nella Fabbrica degli Attori Eccentrici (FEKS), progetto sperimentale di Kozincev e Trauberg, insieme ai quali il compositore lavorò alla partitura per il film muto “Nuova Babilonia” (1929). Nel turbine del primo ventennio del XX secolo, il culmine della spinta eversiva di Dmitrij trova immagine nell’elemento più innocuo, un “Naso“, non quello del compositore, sempre obbligato a sorreggere gli indispensabili occhiali-cannocchiale, quanto piuttosto quello di Gogol.
L’opera si svolge a Pietroburgo, dove Il barbiere Ivan Yakovlevic sta rasando l’assessore di collegio Platon Kovaliov, che lo rimprovera per il cattivo odore delle sue mani. Successivamente Ivan, appena svegliato, tagliando una fetta del pane sfornato un momento prima dalla moglie, si accorge sconcertato che nell’impasto c’è un naso. La moglie lo accusa di averlo tagliato a qualcuno mentre era ubriaco, e lo caccia fuori di casa perché se ne sbarazzi.
Credendo di essere inosservato, il barbiere cerca di liberarsene buttandolo nella Neva, ma un brigadiere ferma il poveretto per chiedere spiegazioni. Nel frattempo Kovaliov, che ama farsi chiamare Maggiore, scopre risvegliandosi di essere inspiegabilmente privo del naso e corre fuori di sé al commissariato. Passando davanti alla cattedrale di Kazan, Kovaliov nota tra i fedeli il proprio naso, vestito da Consigliere di stato. Imbarazzato, Kovaliov avanza un timido reclamo verso il superiore, il quale gli gira le spalle apostrofandolo sdegnosamente.
“Il Naso” (1930) è un’opera satirica in tre atti che punta il dito, o meglio l’olfatto, ai valori morali borghesi, in una critica dalle tinte grottesche raggiunta con artifici musicali d’avanguardia tipicamente occidentali. La voce è strappata dalla sua vocazione lirica per essere tesa fino allo stremo delle sue possibilità, proprio come avviene per gli strumenti in orchestra, deformati nel timbro e nell’espressione. La partitura di Šostakovič è irrequieta, in un perenne e frastagliato agitarsi, non dissimile dai nervosi movimenti delle mani o del labbro inferiore del compositore.
L’isterismo è quello di una “società governata da un mostruoso apparato burocratico” (2), l’assurdo, il grottesco e l’ironia sono i mezzi di Šostakovič per smascherarlo. Nel corso del 1929 Josef Stalin assunse potere indiscutibile ed assoluto, il 18 gennaio 1930 “Il Naso” di Šostakovič fece il suo debutto a Leningrado, ma il baffo d’acciaio non lo approvò. L’opera fu etichettata di “formalismo” e per questo fu eliminata dalle scene russe fino al 1974. Šostakovič abbassò il capo e tornò fra i ranghi.
Il compositore s’immerse nella musica per il cinema, con lavori, quali “L’età dell’oro” (1929-30) o “Il bullone” (1930-31), che si piegavano al racconto di una “eterna battaglia tra i bravi sovietici e i loro nemici” (3).
I primi anni Trenta furono un periodo difficile per la popolazione russa, provata da anni d’industrializzazione e carestia alimentare, motivo per cui Josef Stalin decise di arruolare ogni artista a sua disposizione per la diffusione del nuovo messaggio: “La vita sta migliorando“. Diverrà quindi celebre l’espressione “ingegneri dell’animo umano” utilizzata dal dittatore per definire la funzione degli artisti russi. Nel 1932 il “realismo socialista” ristabilì i termini in cui le forme consolidate dell’arte ottocentesca dovevano adoperarsi ai fini del pensiero sovietico.
Šostakovič si prestò all’obiettivo mettendosi subito al lavoro per presentare la sua nuova e ultima opera: “Lady Macbeth del distretto di Mcensk” (1934). L’opera narra dell’insofferenza della protagonista, oppressa dagli uomini della sua vita, e della sua decisione di sbarazzarsi di ognuno di essi. La prima vittima è il suocero Boris, tipico padrone kulak, ricco proprietario terriero. Nel 1929 Stalin aveva lanciato “una campagna di sterminio per ‘liquidare la classe dei kulak’, tramite esecuzione capitale, incarcerazione o deportazione” (4).
Senza troppo esagerare “Lady Macbeth” avrebbe potuto apparire come un’opera al servizio del genocidio, se non fosse che Šostakovič, estendendo le idee di Èjzenštejn sulla divergenza tra suono e immagine, aveva dato vita ad una tragedia-satirica, che a tutto puntava fuorché sostenere la campagna d’epurazione staliniana.
Due anni dopo la sua prima rappresentazione, ammirando la creazione di Šostakovič nel solito palco A del teatro Bol’šoj, Stalin non si divertì, anzi, s’irritò terribilmente al suono dei rebus cacofonici del compositore. “Caos anziché musica”, fu l’editoriale pubblicato dalla Pravda nel corso dello stesso anno per sbriciolare il lavoro di Šostakovič, uomo scelto perché grande per ammansire il gregge: colpirne uno per educarli tutti.
“Lady Macbeth” fu estromessa dai teatri, “l’affare Šostakovič” era il banco di prova per una nuova forma di controllo, cui molti artisti risposero esponendo il loro ripudio all’imposizione del gusto ufficiale sulle forme di creazione artistica. Lo scrittore Abram Ležnev considerò “l’incidente di Šostakovič come l’avvento dello stesso “ordine” che in Germania brucia i libri” (5).
Šostakovič chiese di parlare al telefono con Stalin, fu messo in attesa ma dall’altro capo non rispose nessuno, cominciò una folta tornata di processi politici e molti di coloro che erano stati favorevoli alla sua causa iniziarono a sparire non troppo misteriosamente. Dmitrij Šostakovič resterà uno dei pochi intellettuali attivi nel periodo del Terrore, a cui fu concessa la grazia di sopravvivere, seppur in uno stato di perpetuo timore provocato da una una morsa che sistematicamente eliminava persone a lui vicine.
Iniziò per il compositore un periodo di crisi terribile, che scaverà una ferita profonda, capace di mutare definitivamente la vita di Šostakovič, vita che ci promettiamo di continuare a raccontare nel prossimo incontro.
Note:
(1) Alex Ross, “Il giovane Šostakovič” in “Il resto è rumore. Ascoltando il XX secolo”, p.357, III edizione Tascabili Bompiani, Bergamo, 2013.
(2) Gianfranco Vinay, “La musica nell’Unione Sovietica” in”Il Novecento nell’Europa Orientale e negli Stati Uniti”, p.44, Torino, EdT 1991.
(3) Alex Ross, “Il giovane Šostakovič” in “Il resto è rumore. Ascoltando il XX secolo”, p.362, III edizione Tascabili Bompiani, Bergamo, 2013.
(4) Alex Ross, “Il giovane Šostakovič” in “Il resto è rumore. Ascoltando il XX secolo”, p.364, III edizione Tascabili Bompiani, Bergamo, 2013.
(5) Alex Ross, “Il giovane Šostakovič” in “Il resto è rumore. Ascoltando il XX secolo”, p.368, III edizione Tascabili Bompiani, Bergamo, 2013.
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