Alla fine anche Bruce Springsteen ha approfittato di quella che viene definita da alcune testate dell’alta finanza una “nuova corsa all’oro“, cioé la cessione del catalogo delle proprie canzoni e dei relativi diritti discografici.
In questo caso, il Boss si è rivolto a Sony, che ha acquisito il tutto per 500 milioni di dollari, cosa che non stupisce visto che Springsteen è sin dall’inizio della sua carriera sotto l’ala della major (Sony/Columbia).
72 anni ma ancora una furia sui palchi e una grande creatività in studio di registrazione, più di 65 milioni di dischi venduti durante la carriera, il Boss è oramai un’icona della musica e per separarsi dai diritti che lo legano ad essa c’è voluto più di un motivo non solo a suon di zeri, che poi sono le motivazioni che hanno portato anche i suoi colleghi a fare lo stesso.
Andiamo per gradi, poiché la questione è complessa e tutt’altro che entusiasmante come farebbe pensare il ticchettio di tante monete che stanno ricoprendo i miti della musica.
La pandemia e la “pagnotta”
Partiamo innanzitutto dal motivo sviluppatosi in tempi più recenti, la pandemia. Inutile ribadire come in questi due anni il covid-19 si sia abbattuto (e continui ad abbattersi) come un’affilatissima scure su tanti settori, compreso quello della musica.
Tutte le performance live si sono fermate per lungo tempo, tutti i tour internazionali dei grandi artisti sono stati annullati. E ovviamente, non parliamo solo dei “big”, parliamo anche dei milioni di musicisti nel medio o anche basso livello (di notorietà/guadagni) che si sono trovati da un giorno all’altro senza una fonte di introiti derivata proprio dai concerti, anche quelli nei club.
Annullare tutto questo vuol dire – elevato all’ennesima potenza per chi riempie gli stadi – privarsi di una parte assai consistente, se non a volte la principale, dei propri guadagni annuali.
Questo semplicemente perché, detto in parole chiare, i dischi non si vendono più. Lasciamo stare la bolla del vinile, che da appassionati speriamo duri ancora per il romanticismo e il valore culturale legato al supporto, ma di sicuro rappresenta una minima parte del mercato musicale, non diciamo insignificante, ma neanche lontanamente “game changer“.
Chi è il Re incontrastato oggi del mercato? Lo avrete già intuito, lo streaming. E quanto paga lo streaming? Dai, lo sapete: una miseria.
Tra tutti il fanalino di coda è proprio la piattaforma più diffusa in assoluto, cioé Spotify, che ad oggi continua a pagare gli artisti con cifre variabili ma che si attestano sempre su frazioni di centesimi.
Se calcoliamo una cifra media (non a caso, secondi i dati) di 0,0038 dollari a riproduzione, con centomila click al mese l’artista avrà portato a casa solo 380 dollari. Dopo il notevole numero di 1 milione di riproduzioni mensili, si parla di 3800 dollari. E così via, basta aggiungere uno zero ogni volta a entrambe le cifre.
Capirete quindi che siamo lontani anni luce dai numeri che una volta si facevano vendendo i dischi e non è certo un caso se anni fa per vincere il cosiddetto “disco d’oro” (ricordiamo che comunque questi premi sono stati inventati dalle stesse case discografiche…) ci volevano centinaia di migliaia di copie e oggi ne bastano poche migliaia, convertite dai click dello streaming oltretutto…
Fondamentalmente lo streaming ha “drogato” tutto: vendite, premi, posizioni in classifica… se già decenni fa i metodi di conteggio erano ritenuti talvolta discutibili, oggi siamo al limite del “geneticamente modificato”.
Tornando a noi, se da un lato non si vendono più dischi e dall’altro non si va più in tour, il tutto si traduce in milioni di dollari (o euro) in meno, molti milioni.
Certo, questo non vuol dire che uno come Springsteen si trovi a suonare per strada chiedendo l’elemosina, ma per altri come ad esempio David Crosby questo è stato un duro colpo a una carriera che, nonostante il nome altisonante, non si traduceva più da diversi anni in grandi numeri sul conto in banca, certo non paragonabili a certi colleghi.
Springsteen, Dylan, comunque avrebbero potuto continuare a guadagnare e vivere bene anche stando a casa sul divano, ma quindi… c’è dell’altro?
I am selling mine also …I can’t work …and streaming stole my record money …I have a family and a mortgage and I have to take care of them so it’s my only option ..I’m sure the others feel the same https://t.co/EXWHR2v6iq
— David Crosby (@thedavidcrosby) December 7, 2020
Artisti con un occhio a Wall Street
Musicisti. Certo. Artisti. Ovviamente. Ma anche imprenditori.
Ogni personaggio a quel livello lo è di se stesso e il suo nome è paragonabile a quello di una società o azienda. A tutti gli effetti, è una sorta di catena produttiva che fornisce dei profitti e che deve mantenersi costantemente su un certo livello.
Ebbene, vista la crisi oramai irreversibile dell’industria discografica (per gli ottimisti: non lo è da ora, è irreversibile da ben prima della pandemia, in caduta libera da almeno un paio di decenni e più…), le grandi case discografiche stanno cercando di tutelarsi acquisendo qualcosa che abbia un certo margine di sicurezza nel mantenere il proprio valore nel tempo.
Con questo obiettivo, è chiaro che un catalogo musicale di artisti di questo calibro svolga una funzione certo non secondaria, nella previsione che comunque l’amore per certe canzoni non si spegnerà mai nel futuro.
A questo poi uniamo che attualmente sia i tassi d’interesse che d’inflazione rimangono piuttosto bassi.
Dal lato del musicista il “giornale dell’alta finanza” è ugualmente aperto e letto attentamente. Intanto, il valore dei cataloghi si è alzato improvvisamente e di sicuro la freccia puntata in su nei grafici fa gola a molti, col dubbio che prima o poi possa cambiare direzione.
Poi c’è un fatto politico: l’attuale presidente Biden ha messo in agenda un’importante modifica all’attuale sistema che guarda ai cataloghi musicali come a delle rendite da capitale e quindi tassate solo al 20% invece che al 37% come i diritti d’autore. Biden vuole invece riequilibrare il tutto – verso l’alto – per chi ha un reddito superiore al milione di dollari annuo.
Conti alla mano, questo per i vari Springsteen, Dylan etc… si traduce in milioni di dollari in meno. Quindi, meglio vendere i cataloghi prima di rimetterci.
Se oggi ti fanno una proposta da 500 milioni di dollari, sicuramente tu – o chi cura le tue finanze – sei maggiormente portato ad accettarla… e anche velocemente…
Eterni ma non eterni
Veniamo al terzo motivo preso in considerazione, semplicemente: l’età.
Va bene che la musica e il culto di certi artisti rimarrà in eterno, ma loro, persone reali, sanno bene di non essere immortali.
Non a caso, tutti gli artisti che per ora stanno vendendo i cataloghi sono di fatto entrati da tempo nella terza età, anche quelli che corrono (correrebbero) sui palchi come ragazzini.
Certo, siamo d’accordo che è così anche perché per avere un catalogo del genere ci vogliono decenni di carriera, ma di sicuro chi oggi ha 70 anni non vuole che accada nel futuro ciò che è già successo molte volte: morire non occupandosi della propria eredità e dar luogo ad infinite battaglie legali tra parenti stretti e meno stretti.
Insomma, soprattutto nei casi di “parenti serpenti”, e visto quanto suddetto, meglio vendere tutto e prendersi il malloppo, non che questo poi non verrà conteso post-mortem da chissà quante persone, ma almeno i diritti e le canzoni saranno messi “al sicuro”.
“Al sicuro”?
Veniamo su questa sicurezza appena detta. Vendere il catalogo e relativi diritti vuol dire che domani una casa discografica potrebbe concedere l’utilizzo di un brano per la pubblicità di un panino o dello sturalavandini.
Proprio per questo alcuni artisti hanno stretto accordi specifici con le case discografiche o le società che acquisiscono le loro canzoni.
Ad esempio Neil Young, che ha concesso in realtà solo metà del proprio catalogo (come anche Stevie Nicks), si è assicurato di far scrivere a chiare lettere nel contratto che nessuno dei suoi brani potrà mai finire in una pubblicità o altro tipo di promozione commerciale.
Sugli altri accordi non si sa molto, restano segreti, come quello del Boss.
A proposito di società che stanno comprando migliaia e migliaia di canzoni, non parliamo solo di major discografiche come nel caso di Springsteen con Sony, ma anche di entità costituite recentemente ex novo.
Ad esempio Hipgnosis Songs Fund, un fondo di investimento nato nel 2018, che vede tra i co-fondatori anche il musicista e produttore Nile Rodgers (insieme Merck Mercuriadis, ex manager di grandi star come Beyoncé, Guns N’Roses ed Elton John), e che finora ha acquisito quasi 45.000 brani spendendo 670 milioni di dollari.
Parentesi: la società ha sede in una delle cosidette “isole del canale” tra Francia e UK, Guernsey, che è un noto un paradiso fiscale…
Alcuni economisti, tuttavia, si stanno chiedendo se non sia questo giro di investimenti stesso a tenere alto il valore del tutto, visto che comunque ciò non cambia il fatto che gli introiti dalla musica rispetto al passato siano sempre più bassi.
Così, nel momento in cui prima o poi questi investimenti/acquisizioni si fermeranno, potrebbe crearsi un cortocircuito? L’oro si trasfomerà in piombo?
Il serial killer nascosto
E infine, c’è il serial killer che agisce nell’ombra sebbene qualcuno in realtà se ne sia già accorto.
Tra le tante cose che sono successe nel 2018, c’è stato anche l’acquisto da parte di AT&T, la maggiore compagnia di telecomunicazioni USA e forse del mondo, del gruppo Time Warner, cioé quel gruppo che al suo interno contiene la famosa major omonima nonché famosi canali come la CNN ed HBO.
Quindi, una grande azienda, che però è sostanzialmente un “contenitore”, ha comprato le aziende che producono i contenuti.
Questo ci porta a un pensiero: se il contenitore è padrone dei contenuti, chi decide questi ultimi e con quali logiche?
Se il futuro vedrà megacorporazioni simili che progressivamente ingloberanno tutto ciò che riguarda la produzione (musicale, cinematografica, ma non solo, pensiamo solo ai grandi media nel giornalismo, aspetto ancora più preoccupante…), quale sarà la fine della nostra libera scelta? Quale quella della libera circolazione di tutta la musica (o altro) e non solo quella imposta a tappeto dalle sole logiche di mercato?
Alla fine di questo lungo articolo, la domanda è davvero di quelle banali: qual è il futuro della musica? Intesa ovviamente come mercato e fonte di sussistenza per gli artisti.
La risposta, come avrete capito, non è né banale né scontata. E il punto forse è che siamo oramai davvero vicini a quel crollo strutturale che è annunciato da tanti anni, con gli avvoltoi che già hanno iniziato a girare intorno alle future macerie.
Chiudiamo però con una nota di ottimismo, perché almeno una ci vuole, sarà il Natale, sarà questa voglia di uscire dai limiti imposti dal covid… ma speriamo che Springsteen torni presto in tour qui nel vecchio continente, ci manchi Boss!
Cover Photo by Takahiro Kyono - CC BY 4.0
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