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“Cattive compagnie” musicali tra Rap e Rock in un sound unico

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Cosa può accadere quando si incontrano cinque menti musicali che oscillano tra il Rap e il Rock passando per il Jazz? I Bangcock sono una delle risposte possibili.

Le origini dei Bangcock, un incrocio di generi

Tra le cose piacevoli del frequentare una community di musicisti c’è sicuramente il vantaggio di entrare in contatto con realtà musicali che altrimenti sarebbero state meno facili da trovare per il sottoscritto.
Prendiamo d’esempio i Bangcock: si tratta di un giovane gruppo italiano che difficilmente avrei conosciuto se non fossi diventato amico di Francesco “Nedo” Rossi Valenti, apprezzatissimo membro della nostra community su Discord e (altrettanto stimato) chitarrista della band in questione.

La storia dei Bangcock è recente ma già densa di pietre miliari. Tutto iniziò nel 2017 con l’incontro tra il rapper Simone Falluomini aka Fake e un gruppo di musicisti di variegate influenze: il nostro Nedo alla chitarra, Alessio Zeppoloni al basso, Paolo Acquaviva al trombone e Daniele De Bellis alla batteria.

Si è rapidamente sviluppato un percorso fatto di premi e partecipazioni a eventi di spessore, come il palco del Firenze Rocks 2019, ideale corrispondenza di una band che sin dal primo momento si è profilata come votata all’esperienza live.
Tuttavia nello stesso anno si è concretizzato lo stimolo di regalare alla produzione musicale del gruppo una dimensione in studio: così è nato Cattive Compagnie, l’album di esordio dei Bangcock su cui voglio soffermarmi in questo articolo.

Una band che non si perde in falsi “convenevoli”

Il gioco di parole col titolo della seconda traccia permette di introdurmi a uno dei caratteri fondamentali dei Bangcock: lo stile creativo diretto.
Le lyrics di Fake, prevalentemente in un’efficace forma rap, sono esplicite e ricche di significati che trovo attualizzabili al 100% e compatibili con una varietà di situazioni relazionali della vita di tutti i giorni.
È importante sottolineare il valore dei messaggi espressi attraverso i testi, perché un testo è pur sempre il racconto di qualcosa che può essere frutto di prospettive interne o dell’effetto dei contesti ai quali siamo sottoposti; e pertanto, si tratta di un elemento assolutamente musicale non soltanto nella forma, ma anche nei significati veicolati.

Una delle cose che mi hanno impressionato sin da subito è la credibilità con cui il gruppo è riuscito ad amalgamare lo stile Hip-Hop con gli orientamenti musicali degli altri componenti.
Il Rock si muove nell’area strumentale dei Bangcock in diverse sfaccettature: ammiccando al pop in “Convenevoli”, con tratti dal sapore più funk (chi ha detto Red Hot?) in “La Legge di Murphy” e in “Parli Parli”, in un tono più heavy nella title track. Non mancano riff e assoli di chitarra dalle suggestioni facilmente rintracciabili indietro nei decenni, ma la presenza della sei-corde è bilanciata con grande accuratezza all’interno del contesto.

È interessante il modo in cui i ragazzi sono riusciti a trovare una quadratura nel conciliare il carattere incisivo della sezione ritmica (padrona di un groove che si sente essere stato molto consolidato dal vivo), la chitarra a tratti hendrixiana di Francesco e uno strumento teoricamente poco dentro un simile contesto come può essere il trombone: il risultato di questo sforzo si può raccontare a parole solo fino a un certo punto, quindi il mio consiglio è “ascoltare per credere“.

Perché abbiamo bisogno di un contesto del genere

Le motivazioni per dare spazio a un progetto come questo sono per me diverse e tutte importanti. Musicalmente parlando, la proposta dei Bangcock risponde a dei requisiti che mi stanno molto a cuore: tipologia dei suoni (quelli di chitarra in particolare), cura del groove e delle dinamiche, un giusto equilibrio tra la semplicità dei generi di riferimento e le solide abilità tecniche dei vari componenti.
Insomma, trovo che Cattive Compagnie sia un disco dal quale traspare un importante valore musicale, che si percepisce in maniera nitida essere stato raffinato su molti palchi e con un grande lavoro in sala prove e in studio.

Ma c’è un’altra ragione che mi spinge a dare preferenza e sostegno a questo progetto: i Bangcock sono riusciti a costruire un’immagine e una comunicatività assolutamente distintive senza scendere a certi compromessi di facile acchiappo che nel contesto web della musica sono sempre in agguato.
I ragazzi hanno consolidato un’identità definita, dal punto di vista musicale quanto da quello comunicativo, e l’hanno fatto esprimendosi in maniera schietta, senza filtri di falso perbenismo, orientando i loro sforzi nella direzione dell’esperienza del musicista più che verso quella del personaggio online; e l’hanno fatto non ricorrendo neanche all’estremo opposto, quello del social-rifiuto e della negazione dell’importanza dell’immagine nel percorso di un artista.

Regalandomi, mi sia concesso un momento di amichevole fanatismo musicale, un inno come “Etere”, e in generale la prospettiva che sì, possiamo fare musica restando noi stessi e al tempo stesso aprendoci al mondo che ci circonda, a prescindere dalla forma e dai contenuti che questo contesto abbia.

Per seguire i Bangcock sui loro canali web ufficiali:

Foto di copertina a cura di Giacomo Bai su gentile concessione