Nel Mucchio di giugno un’interessante riflessione su Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band a cinquant’anni dalla sua pubblicazione. Sempre nella cover story, Alberto Campo inquadra il momento storico dell’uscita dell’album, quella fatidica estate del 1967 dei figli dei fiori e delle band che animavano la scena californiana dell’epoca.
Domenica 25 giugno 1967 i Beatles presentarono in mondovisione, nel corso dello show Our World (dove comparvero pure Pablo Picasso e Maria Callas), una canzone mai ascoltata prima dalle centinaia di milioni di telespettatori raggiunti dal segnale via satellite in 25 paesi: “All You Need Is Love”, destinata a uscire su 45 giri una dozzina di giorni più tardi.
In verità l’Estate dell’Amore – introdotta da quell’apparizione dei Fab Four su scala planetaria – era cominciata in pieno inverno.
Il 14 gennaio circa 30mila persone avevano partecipato all’happening organizzato al Golden Gate Park di San Francisco dall’artista Michael Bowen e dal poeta Allen Cohen, tra i fondatori del foglio underground Oracle e già promotori del Love Pageant Rally, convocato il 6 ottobre 1966 per protestare contro la messa al bando dell’Lsd imposta dal governo californiano.
Allo Human Be-In (traducibile come “Esserci Umano”) presenziarono, fra i tanti il guru della psichedelia, Timothy Leary, che arringò la folla reiterando lo slogan “Turn on, tune in, drop out” fresco di conio, e il santone della Beat Generation Allen Ginsberg, mentre Grateful Dead, Jefferson Airplane, Big Brother & The Holding Company e Quicksilver Messenger Service provvedevano alla musica e il chimico Owsley Stanley (anche fonico del “morto riconoscente”) alla distribuzione di Lsd, replicando così in vaste proporzioni l’usanza degli Acid Test praticata dai Merry Pranksters di Ken Kesey (l’autore di Qualcuno volò sul nido del cuculo) e documentata da Tom Wolfe in The Electric Kool-Aid Acid Test.
Da nove giorni Ronald Reagan si era insediato nel ruolo di governatore dello Stato e fra i primissimi atti amministrativi aveva disposto la rimozione del rettore della University of California di Berkeley, Clark Kerr, accusato di lassismo nei confronti del Vietnam Day Committee, germinato nel maggio 1965 da un nucleo di cui facevano parte gli agit-prop Jerry Rubin e Abbie Hoffman, responsabile del Peace Trip VDC Benefit Dance del 25 marzo 1966, animato fra gli altri dai soliti Jefferson Airplane.
Movente principale dei tumulti giovanili era l’opposizione all’intervento militare in Vietnam (il totale dei morti statunitensi avrebbe superato la soglia simbolica delle 20mila unità alla fine del 1967), resa evidente nel dicembre 1964 dall’occupazione dell’università di Berkeley, indetta dal Free Speech Movement (e romanzata nel 1970 sul grande schermo da Stuart Hagmann in Fragole e sangue), e sfociata il 15 aprile 1967 in imponenti cortei pacifisti a New York e San Francisco.
Il rock ne era colonna sonora e carburante culturale: dalla “canzone di protesta” di Bob Dylan all’esortazione psichedelica dei Byrds a salire “otto miglia in alto”.
Va considerata poi la sintonia con il movimento per i diritti civili guidato da Martin Luther King, testimoniata dalla presenza sul palco dello stesso Dylan e di Joan Baez, ambasciatori della dissidenza bianca in un parterre afroamericano, durante la marcia su Washington del 28 agosto 1963, conclusa dal discorso da lui pronunciato di fronte al Lincoln Memorial e immortalato dal proverbiale incipit “I have a dream…”.
Il dottor King sarebbe stato assassinato a Memphis il 4 aprile 1968 (due mesi e due giorni prima di Robert Kennedy): crimine che avrebbe provocato rivolte in tutte le metropoli americane, preannunciate dalla sommossa razziale divampata a Detroit dal 23 al 31 luglio 1967.
Frattanto a San Francisco la politica andava di pari passo con il divertimento.
“M’interessavano due cose: rovesciare il governo e scopare. Ed erano complementari”, ha confessato nel 2012 a Vanity Fair Peter Coyote, in seguito attore di successo (da E.T. a Luna di fiele) ma ai tempi leader dei Diggers, gruppo che promuoveva attività di autogestione sul territorio e fautore – insieme alla redazione di Oracle e alle associazioni The Family Dog e The Straight Theatre – del Council For The Summer Of Love, titolare della conferenza stampa svoltasi il 5 aprile 1967, alla vigilia dello spring break che avrebbe portato in città le avanguardie della moltitudine attesa per l’estate.
Fra gli appuntamenti di richiamo c’era il raduno in programma dal 16 al 18 giugno a Monterey, distante circa 180 chilometri da Frisco, in direzione sud: l’archetipo dei festival pop, sulla passerella del quale sfilarono fra i tanti Byrds, Jefferson Airplane, Who, Janis Joplin e soprattutto Jimi Hendrix, che appiccando fuoco alla propria chitarra diede forma all’immagine emblematica dell’evento, divulgato su scala cinematografica dal documentario diretto da Don Allan Pennebaker.
Il cast era stato selezionato da un “consiglio di amministrazione” in cui figuravano Paul McCartney, Mick Jagger, Donovan, Roger McGuinn, Andrew Loog Oldham, Smokey Robinson, Brian Wilson e altri ancora. Totale approssimativo: oltre 50mila spettatori. Avvisaglia eloquente di quanto sarebbe capitato nell’estate che rese San Francisco – già approdo per gli hipsters della Beat Generation, intorno alla libreria City Lights di Lawrence Ferlinghetti a North Beach, nel decennio precedente – fulcro della comunità giovanile.
Andò in scena allora il rituale dionisiaco dei baby boomers: cerimonia d’iniziazione generazionale ambientata nelle comuni hippie insediate nell’area di Haight-Ashbury (celebre quella al 710 di Ashbury Street frequentata dai Grateful Dead, il cui primo album era uscito il 17 marzo), rettangolo di neppure un chilometro quadrato punteggiato dai tipici edifici vittoriani costruiti in origine per gli immigrati irlandesi.
Erano laboratori spontanei dove si sperimentavano modelli di vita alternativi in fatto di relazioni sessuali, spiritualità, alimentazione e abbigliamento, usando le droghe come grimaldelli per “aprire la mente”.
Sul New York Times Magazine del 14 maggio Hunter Stockton Thompson aveva sentenziato con un neologismo allusivo: “Hashbury è la capitale degli hippies”.
Si ammassarono così in quei luoghi decine di migliaia di ragazze e ragazzi provenienti dai quattro angoli del Paese (“L’invasione dei figli dei fiori”, titolò il San Francisco Chronicle), con giornalisti e troupe televisive in scia.
Notava Joan Didion nella raccolta di scritti Verso Betlemme: “In Haight Street gli osservatori inviati da Life, Look e Cbs erano talmente numerosi che passavano buona parte del tempo a osservarsi tra loro”.
Il resto dell’articolo di Alberto Campo e della cover story sul Mucchio di giugno in edicola.
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