Il duo newyorkese che anticipò il punk raccontato nel Mucchio di dicembre da Massimo Zamboni, che oggi torna con i Soviet + L’elettricità dopo aver segnato la storia del rock italiano con il punk filosovietico dei CCCP e le canzoni di resistenza dei CSI. Usciva nel 1977 l’album d’esordio dei Suicide, Martin Rev e Alan Vega.
I due decidono di formare una band ispirata al fumetto horror Satan Suicide. Ne nasce un punk a modo loro: gelido, elettronico, ossessivo. Fino al 2016, anno in cui muore Alan Vega.
Ne parla Massimo Zamboni che con i I Soviet+ L’elettricità oggi propone canzoni dal repertorio CCCP, CSI, e poi teatro, danza, proiezioni con ospiti come Max Collini, Angela Baraldi, Fatur e tanti altri.
Massimo, è il dicembre del 1977, esce l’omonimo dei Suicide. Ricordi dov’eri?
Sì, certo, perfettamente. Avevo 19 anni, ascoltai l’album all’indomani della sua uscita. Ero con un amico, una sera, a casa sua. Lui mise il disco sul piatto e ricordo lo stupore: mai sentito nulla di simile!
Fu una sensazione di spaesamento. Sentire “Frankie Teardrop” con quella voce, quella musica, quella tastiera fu una botta.
Tempo fa hai scritto un articolo sui Suicide, s’intitolava Punk prima del punk. Quali semi avevano piantato per anticiparlo, il punk?
Beh, loro prima di quel ’77 avevano già fatto alcuni spettacoli chiamati Punk Mass (messa punk) anticipando tutti, anche Londra. Il punk, inteso come spazzatura, rifiuto, non era un concetto inedito, la novità dei Suicide fu nello stilema con cui lo proposero.
E naturalmente nella loro forma musicale così diversa da qualsiasi altra cosa del periodo.
A proposito di questo, i Suicide sono considerati punk freddi.
Esatto, è la loro unicità. Erano gelidi. Quando li vidi dal vivo c’era Martin Rev fermo, in piedi e tutta la fisicità della band era affidata alla voce e ai pochi movimenti di Alan Vega.
Nessun salto, nessuno strumento brandito a mo’ di arma. Non c’erano chitarre, né musiche di rivolta, c’era solo una tastiera glaciale.
Ma era il mondo che ricreavano a fare la differenza.
Differente fu anche il loro modo di approcciarsi alla scena di New York di cui rimasero cani sciolti. Perché?
Erano molto colti, in città seguivano le novità musicali, dal jazz al rock. Vega era appassionato di arti figurative. E poi lui debuttò nel rock a quarant’anni e se ci pensi è assurdo: a quell’età si sta già in pantofole!
I Suicide non volevano legarsi, non volevano compromessi, addirittura andarono contro a un vate come Allen Ginsberg che li criticò perché a suo parere il loro nome era “troppo tetro”.
E anche dalla Factory di Warhol si tennero a dovuta distanza.
Vega una volta disse: “Si è sempre in due quando si forma una band”. Ti ricorda qualcosa?
(ride) Beh, le grandi storie si fanno sempre in due. Vedi McCartney e Lennon, vedi Jagger e Richards.
Vedi Ferretti e Zamboni.
Già. Probabilmente senza Lindo avrei fatto poco e viceversa. Il duo è un’unità di base molto forte, indistruttibile. Da solo devi avere una forza infinita ed è difficile invece essere più di due perché poi c’è troppa carne al fuoco.
In tutto questo Vega e Rev erano una coppia molto litigiosa! Non si sopportavano granché. Però erano complementari. Come me e Ferretti.
Portasti un po’ di riferimenti Suicide nei CCCP?
Forse in maniera inconsapevole. Quello è un mondo che mi ha sempre affascinato.
Nico, Velvet Undeground, Suicide… sono sempre stati bagaglio inavvertito nella nostra musica.
Torniamo al punk. Perché in Italia non si riuscì ad evadere dal binomio punk ironico-punk politico? Perché non si riuscì a fare un punk per il punk?
Perché mancarono personalità vere e proprie. Freak Antoni è stato un grande genio della nostra generazione ma non chiamiamolo punk: tolta la patina ridanciana, fu una mente lucida e intelligente.
Il punk italiano non si sopporta, non si sopportava all’epoca e non si sopporterà mai perché non ha nessuna attinenza col genio individuale. Ci vuole molto più di facili proclami!
Ci vuole una voce, una testa pensante capace anche di consumarsi, di darsi al 100 percento, senza essere per forza a supporto di un’idea di liberazione o di lotta.
E i CCCP? Che punk erano?
Noi ci definimmo punk filosovietico perché punk era la chiave per affermare la nostra sfacciataggine rispetto all’incapacità assoluta di suonare.
Poi in realtà le cose sono diventate più complesse: non dico che abbiamo imparato a suonare però, ancora oggi quando ascolti quelle canzoni, ti accorgi che non era un gioco, non era una leggerezza, c’era molto di più.
Negli anni ti sei mai sentito ingabbiato dai CCCP?
Sì, ma io amo le gabbie! L’idea di libertà mi fa sorridere perché, se guardiamo le cose da una prospettiva aerea, la libertà serve a propagandare la vendita di SUV o di nuovi cocktail. Io amo le gabbie, amo ingabbiare ed essere ingabbiato.
C’è molta sincerità in questo: c’è lo spremersi, il darsi, la generosità. I CCCP mi hanno fatto faticare da matti, è stata una vita molto dura e litigiosa, e i CSI peggio ancora.
Però mi sento fortunato: chi si può permettere di avere un rapporto così passionale, cosi denso, cosi ricco?
C’è ancora chi mi dice: “Manca la voce di Ferretti nei tuoi dischi”. E io gli risponderei: “Vero, ma manca anche la chitarra di Gilmour se per questo”.
Dopo un lungo novembre di live, I Soviet+L’elettricità arriva all’ultima tappa (7/12, R.Emilia). Questi concerti cosa raccontano di te?
C’è tutto di me, a livello di scrittura, musica e pensiero. È la somma di quello che mi passa per la testa. È uno spettacolo molto forte.
Al netto dalla musica, che vive di un repertorio consolidato seppur riarrangiato, è l’idea complessiva a essere importante: questo comitato centrale sul palco, con queste divise futuribili. Queste proiezioni che, per affinità o contrasto, forniscono chiavi di lettura sulla Rivoluzione.
Non si risparmia niente, nella retorica e nella celebrazione. È una messa sul palco molto dolorosa: comincia con una marcia funebre al buio che dura più del dovuto perché si capisca che non si tratta di un gioco, ma della vita e della morte di milioni di persone.
Insomma, nessuno agita pugni chiusi e falci e martello. C’è una grande quantità di contenuti. Volutamente eccessiva.
La reputi la chiusura di un cerchio per te?
Sì, assolutamente. Tante volte penso che, dopo questo concerto, potrei anche smettere di suonare. O magari poi trovo la forza di ricominciare da zero.
Fine o nuovo inizio danzano su un confine sottile. In ogni caso sarà qualcosa di bello.
Riccardo Marra
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