Il “Trio Bobo”, solo il nome mi risveglia così tante emozioni e ricordi, soddisfazioni, sacrifici, momenti di oscurità per poi tornare a vedere la luce nel momento inaspettato!
Nel 2000 suonavo spesso con Billy Cobham e in un concerto c’era Faso al basso! Quella è stata la prima volta che ci siamo visti ed abbiamo suonato. Christian lo conoscevo poco più che di vista.
Pochi mesi dopo lo chiamo e gli dico: “Christian, sai che pensavo che potremmo fare qualcosa assieme io te e Faso?!?“
Quattro chiacchiere finite in un grande punto interrogativo lungo circa un anno, quando a gennaio 2002 squilla il telefono ed era Christian che mi proponeva di fare due concerti di fila a Cuneo e Milano in trio con Faso. Ho capito che voleva vedere cosa sarebbe successo.
Mi manda una cassetta audio (all’epoca andavano ancora) con un po’ di cover da fare; le tiro giù a memoria come ho sempre fatto con tutta la musica suonata in vita mia (grazie alla mia reticenza alla lettura specie sul palco). Facciamo una prova in una sala a Milano e partiamo.
Entrambi i concerti sono andati come se avessimo suonato precedentemente molte altre volte; un’immediata empatia ci ha unito subito. Il pensiero musicale di tutti e tre si incastrava alla perfezione. Io e Faso cominciamo a parlare di un sacco di cose al di fuori della musica e diventiamo subito complici e amici pur essendo per alcuni aspetti diversi.
Abbiamo cominciato a suonare nei club per almeno un anno quando ad un certo punto spunta una vecchia conoscenza: Federico Gasperi il quale mi chiama e mi propone di collaborare con noi in veste di manager. Da lì abbiamo suonato in lungo e in largo in tutta Italia riscuotendo sempre un ottima risposta dal pubblico e registrando due anni dopo il nostro primo cd.
Riascoltando quel cd, sento tre persone che cercano una personalità di gruppo oltreché ricercare ognuno il proprio sound personale. Nel cd ci sono molti brani originali scritti da tutti e tre ed è proprio questa la forza del trio bobo: l’unione di tre personalità forti che collaborano e non si schiacciano mai i piedi.
Certo, a volte si discute di quale può essere una particolare soluzione in un brano, piuttosto che di quali arrangiamenti cercare e a volte non siamo sempre d’accordo…è proprio questo che stimola! Infatti, la stima reciproca ci porta a credere che ciò che dice l’altro, pur non essendo totalmente d’accordo, non sia una fesseria!
È nel secondo disco che il trio trova davvero il proprio sound unico e personale, un sound fatto interamente di collaborazione musicale. Questa è la chiave: cercare di domare il singolo ego, di non suonare pensando che gli altri siano accompagnatori ma cercando la solidità di una vera band come per i Weather Report, il quintetto di Miles Davis o i Led Zeppelin!
Un’altra caratteristica del trio è quella di non mettere al primo posto il classico assolo strappa applausi. Gli assoli ci sono, ovvio, ma sono miscelati all’accompagnamento, e non sono mai troppo lunghi. Si cerca di creare situazioni e colori anche mentre suoniamo un assolo.
Come nascono le composizioni del Trio Bobo
Di solito ci incontriamo in sala prove, ognuno con qualche idea abbozzata. Suoniamo, parliamo e sperimentiamo registrando tutto. Dopodiché, con un po’ di lavoro a casa, ripuliamo le idee buone, le affiniamo, cambiamo qualcosa e ci rivediamo per migliorare ancora fino a che non abbiamo costruito l’intero brano con il relativo arrangiamento. Qualche brano è scritto interamente da me ma la maggior parte è composta da tutti e tre.
Il secondo disco Pepper Games è nato allo stesso modo del primo, con la differenza che ci abbiamo messo molto più tempo. Prima di tutto abbiamo passato diversi anni ognuno cercando il proprio sound; successivamente abbiamo fatto la stessa cosa con il sound del gruppo e non del singolo. Questo ha dato un risultato di maggior pulizia, con un suono di base più identificabile ed uno stile originale.
Attualmente possiamo ritenerci molto soddisfatti dei risultati ottenuti! Credo sia difficile trovare oggi in Italia un gruppo strumentale di jazz-rock con un tale seguito!
La chitarra di Alessio Menconi nel cd Pepper Games
Chitarra Gibson es-175 del 1980 (di quelle fatte ancora a Kalamazoo) utilizzata in tutti i brani. Nell’assolo di “James Bobo” uso una Gibson 335 con pick-up midi collegato al modulo guitar synth Roland GR20. Sono partito da un suono di default di contrabbasso, poi l’ho messo due ottave sopra e mi è piaciuto.
Corde IQS 012-052 (Quando suono jazz con suono pulito uso 014-056)
La chitarra entra in una pedaliera e segue questo percorso:
- Ampli DV Mark e Fender
- Pedale/volume Ernie Ball
- Ibanez TS9 (modificato a TS8 e con true bypass) level 5, tone 5, drive 7
- Arion Chrous (true bypass) utilizzato come vibrato. I tre potenziometri sono tutti a metà
- Mu-Tron envelope filter
- MXR phase 90, potenziometro del rate regolato sul 6
- Strymon Delay “El Capistan” (collegato in stereo), normalmente regolo il time con il tap tempo seguendo il tempo del brano, repeat a 4, il mix lo cambio spesso con il piede in base a ciò che voglio al momento, modulation a 2
-
Strymon Reverb “Blue Sky” (collegato in stereo), uso un reverbero molto lungo memorizzato, ed uno standard (2 secondi) regolato a mano; in entrambi metto il pre-delay a 3, bass a 3, treble a 6. Nel mixaggio del disco il riverbero è un TC Electronic inserito in fase di miraggio, il resto resta invariato.
Abbiamo lavorato molto con Foffo Bianchi, Andrea Pellegrini e Gianluca Guidetti, al fine di trovare il miglior suono possibile. Inizialmente sono andato a casa di Foffo a fare un pre-mix della sola chitarra. Ascoltando davo indicazioni e facevo osservazioni e loro mi aiutavano ad ottenere i risultati richiesti. Foffo è stato molto bravo nel cercare alcune frequenze che a volte “sporcavano” il sound e a tagliarle seppur di pochi db.
A volte il lavoro si fa sottile, ovvero, quella determinata azione dell’equalizzatore entra solo in una frase specifica della chitarra, semplicemente perché suonata sulle corde basse e magari con sound troppo “scuro”, oppure perché suonata con una dinamica particolare. Questo brano per brano, e così anche per il compressore. Quest’ultimo è molto delicato perché non si deve sentire; se si sente, addio dinamica e suono naturale!
Specie in questa musica e nel mio modo di suonare che ricerca la purezza del suono che di base arriva dal jazz il suono deve essere puro e semplice. Nel compressore la ratio la mettiamo molto bassa, la threshold lavora entro due db al massimo. Gianluca ha lavorato soprattutto su attack e release; strano a dirsi ma, con un buon compressore (e noi abbiamo usato il top e cioè il Manley) questi due parametri possono fare la differenza.
Gli amplificatori erano in regia in modo da non avere rientri in sala. Dopo vari esperimenti abbiamo messo un Fender Twin accoppiato ad un DV Mark in stereo (gli effetti stereo sono il delay e il reverb). Su uno un sm57 leggermente fuori asse, sull’altro un condensatore; l’unione dei due ampli e microfoni diversi ha arricchito il suono.
Le regolazioni: bassi a 3, medi a 5, acuti a 5. Il volume della chitarra non è mai a 10, in questo modo il suono resta sempre più morbido, dinamico ed un po’ meno elettrico.
Come si svolge il sound check prima dei concerti
Comincio a fare un po di regolazioni, ognuno sistema i propri strumenti e si parte con il check. Sistemiamo i monitor e cerchiamo di stare abbastanza bassi sul palco in modo da dare maggiore libertà di gestione dei volumi al fonico. Se poi ho bisogno di più volume lavoro con i monitor ma non alzo gli ampli.
Una volta sul palco la percezione del suono non è mai come nel sound check! Su questo ormai c’ho messo una pietra sopra. Cambia l’acustica della sala piena di gente, cambia probabilmente il mio tocco (dal vivo si è sempre un po’ più energici) cambia anche il volume di Christian alla mia sinistra e quindi, quasi sempre ho bisogno di una tacca in più nei monitor.
In questo caso, faccio un segno al fonico oppure alzo gli ampli di mezza tacca. Comunque cerco di suonare più tempo possibile al sound check in modo da abituarmi al suono e sentirmi a mio agio durante il concerto. Si suonano un paio di brani tutti assieme per concludere il check (magari solo nei punti da ripassare) e quando è tutto ok smettiamo.
Sono le 20 e si va a cena per poi tornare alle 22 circa pronti per suonare. Cerco di ritagliarmi sempre almeno mezz’ora in cui stare da solo, suonare qualcosa, concentrarmi senza saluti o impegni vari che non siano il suonare. A volte non c’è tempo, altre volte devi accogliere l’amico o il conoscente che viene a sentirti, altre volte devi firmare il manifesto, compilare qualche scartoffia.
Cosa succede nella mente mentre si suona dal vivo
Nell’ordine è importante:
1) Studiare i brani e le proprie parti al meglio. Per farlo bisogna suonare lentamente, memorizzare, “cantare” le melodie. Con la chitarra poi c’è il problema della diteggiatura e quale usare in quel determinato passaggio.
Quando si decide che abbiamo imparato i brani? Difficile dirlo! Suonando il brano dall’inizio alla fine senza errori è già un buon traguardo. Però, specie se si tratta di un pezzo difficile, bisognerebbe suonarlo 4/5 volte di fila senza errori, e magari fare lo stesso il giorno prima delle prove e del concerto. In quel caso “forse” lo sappiamo.
2) Le prove sono il secondo step importante per la riuscita del repertorio. Suonare da soli è un conto ma la musica si fa assieme, e quando si suona assieme, con gli ascolti diversi di quando si è a casa, con il timing di tutti e tre che deve diventare un timing unico, è tutto diverso rispetto a quando lo si fa da soli seduti sul divano. Bisognerebbe provare tanto, questo anche se i brani escono bene. Sempre meglio suonarli una volta di più che una in meno.
I grandi gruppi della storia sono diventati tali suonando tantissimo assieme, sia alle prove che dal vivo. Questo è l’unico modo. I Beatles suonavano ad Amburgo 5 ore a notte, il quintetto di Miles Davis suonava tutte le sere in giro per il mondo…
3) Il live è la prova finale e il modo migliore per imparare un brano difficile. La “prima” è sempre difficile, pensi di sapere tutto perché hai studiato, hai provato e ti senti a posto, ma dal vivo l'”energia” è diversa. Fai tutto bene e tutto a un tratto… un foglio bianco davanti agli occhi! “Cosa succede adesso? Non ricordo più la frase“. Pochi secondi e ti sei fumato la frase o l’arrangiamento, a volte può succedere. Ma una seconda volta non ci sarà, in quanto una volta suonato il nuovo pezzo dal vivo l’hai scolpito in testa e l’errore fatto dal vivo non lo dimentichi più, quindi difficilmente lo rifarai.
Il giorno dopo, arrivi in quel punto e dici: “ecco ieri ho sbagliato, adesso devo suonare questa cosa in questo modo“.
A volte può essere l’altro elemento del gruppo che sbaglia qualcosa o non è chiaro; questo compromette quello che stai per fare e magari, se già eri insicuro è la volta che sbagli qualcosa anche te. Per fortuna sono cose che succedono raramente e con l’esperienza non se ne accorge quasi nessuno.
Il rischio fa parte del Jazz, e come tale ci si avventura finendo a volte in qualche vicolo oscuro dal quale si cerca di riuscire subito; senza un po’ di “improvvisazione” e senza avventura non c’è eccitazione; d’altronde “avventura” vuol dire rischio e mistero.
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