Il Rock è vivo, il Rock è morto
Dove finisce la consapevolezza di sé e inizia qualcosa di più simile al volo pindarico? O più precisamente: a che punto un artista dovrebbe smetterla di cercare di definirsi per etichette, lasciando invece parlare la propria espressività?
Quesiti di questo tenore si affacciano sempre più spesso nel mio immaginario personale. In particolare sul genere musicale in oggetto, a causa di affermazioni talmente ripetute che posso definire abusate senza ombra di dubbio.
Un esempio neanche tanto fuori tema: “il Rock è morto”. Assistere a una tale serie di simbolici “funerali” di un genere musicale è un’esperienza inattesa, e detto tra noi della quale avrei fatto a meno; soprattutto perché ho l’impressione che, come alcuni dei concetti che esprimerò in questo articolo, questa finta presa di coscienza sia troppo spesso un alibi per fare altro.
“Oggi il Rock non vende più, perciò non suonarlo” (ma come vedremo, forse anche questo vento sta cambiando): quante volte ce lo siamo sentito dire?
Sintetizzando, questo pensiero equivale a ricondurre l’intera esperienza creativa ed espressiva della musica, e non soltanto quella del professionista che deve mettere il pane in tavola, a una questione di indotto economico; sarebbe bello poter chiedere a coloro che hanno fatto la storia di certi generi se i rispettivi capolavori sono nati da questi presupposti.
Oltre a questa strana urgenza di declamarne l’elogio funebre, del Rock ultimamente mi ha dato da pensare la recente diatriba su cosa sia o non sia Rock. Ma soprattutto su chi lo sia o meno.
Jimi Hendrix © Photo by Steve Banks – CC BY-SA 4.0
“Ma i Maneskin sono Rock?”
Eccola, una delle Domande con la “d” maiuscola che in questi mesi sono rimbalzate per il web e per i social come palline impazzite. Dal Festival di Sanremo all’Eurovision Song Contest, questi quattro ragazzi da Roma hanno costretto l’intero panorama musicale nazionale a interrogarsi nuovamente sul Rock (ma non era morto?).
“Ma i Maneskin sono Rock?“: spero che nessuno qui si aspetti la mia risposta, perché semplicemente non ce l’ho. In primis perché non vorrei trasmettere un’involontaria aria di presunzione nell’affibbiare definizioni così rilevanti, men che meno su qualcosa che non conosco approfonditamente quanto credo che si dovrebbe prima di esprimere giudizi.
Ma soprattutto perché non sento l’urgenza di etichettare a monte qualcosa che mi sembra già ampiamente definito nei fatti.
Chiamarlo Rock o meno non cambia la consistenza di un fenomeno, che è data più dai fatti che dalla discussione che se ne fa attorno: succede da sempre, continua a succedere. Usciamo dal Rock? Bene: “ma Fedez fa rap o trap?“; “ma Tommaso Paradiso fa indie o fa pop?“. Usciamo dal mainstream? Cambia poco: “ma gli Snarky Puppy fanno fusion o jazz?” (sì, sono incappato persino in interrogativi di questo tipo).
Ho estremizzato, è chiaro: ma l’ho fatto in buona fede, perché vorrei trasmettere l’urgenza di dare via via sempre minor importanza alle facili etichette di genere musicale, tanto come addetto ai lavori quanto (ma soprattutto) come appassionato di musica.
(Ma insomma che musica fanno ‘sti Maneskin? Questo è il pezzo con cui hanno vinto sia in Italia che in Europa, a ognuno le sue conclusioni)
Il Rock e le etichette (anche quelle discografiche)
Dopo averlo vissuto in prima persona per tanti anni come musicista del cosiddetto underground, continuo a sentirmi chiedere cosa dovrebbe fare un musicista, a maggior ragione influenzato del mondo Rock, per emergere oggi come oggi. Quanti artisti darebbero un dito (del piede però, così possiamo continuare a suonare i nostri amati strumenti) per avere la risposta definitiva a un simile quesito?
Una cosa di cui resto fermamente convinto è che darsi un’etichetta a priori non serva a molto, ai fini del raggiungimento di questo famigerato successo. O quantomeno, penso davvero che l’etichetta di cui tanto si parla possa essere una questione di immagine più che di chiacchiere, e quindi comunque un fatto pratico (per quanto discutibile).
In questo senso, c’è una bellissima “lezione” del nostro amico Massimo Varini che vale davvero la pena di essere ascoltata, assimilata, messa in pratica.
Mi viene da sorridere pensando che ci si affanna tantissimo a pensare alle etichette, tanto quelle di genere quanto quelle discografiche. Sono sicuro che il successo internazionale che i Maneskin stanno riscontrando (dati alla mano) spingerà tantissimi tra addetti ai lavori e aspiranti rocker a farsi un mare di domande su cosa fare da qui in avanti musicalmente parlando, sulla scorta di un esempio così inatteso e così rumoroso.
Dunque, alla fine della fiera, “il Rock è vivo“? Troppo presto per trarre conclusioni affidabili, troppo piccola una singola mente per potersi arrogare la pretesa di una visione di insieme.
Senza dubbio sono davvero molto curioso di vedere dove andranno a parare il mercato e le preferenze della massa; ma è una curiosità accademica, direi quasi tecnica, da persona che per lavoro ha a che fare con la musica, con gli artisti, coi numeri.
Da umile appassionato, ho invece una solida certezza: quella che continuerò a trovare qualcosa che mi emozioni e che mi regali momenti da ricordare. Perché di buona musica si continua a farne, Rock o non Rock, vivo o morto: basta avere la pazienza e la cura di cercare.
In conclusione, ciò che mi sento di consigliare a prescindere, tanto a chi crea quanto a chi “critica”, è di andarci piano con le etichette: siamo musicisti, non archivisti.
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