I nomi di Max De Bernardi e Veronica Sbergia spiccano da tempo tra i musicisti italiani che reinterpretano il blues tradizionale con gusto e personalità
Molto attivi con il loro duo e singolarmente in varie collaborazioni di livello internazionale, i due musicisti lombardi propongono da diversi anni un repertorio che dona nuova vita ai classici d’epoca con humour e grande classe strumentale.
De Bernardi è uno dei migliori fingerpicker nostrani, maestro nell’uso delle chitarre resofoniche National, e Veronica è una delle poche interpreti vocali in grado di reggere il confronto con le colleghe di oltreoceano.
Il loro nuovo album è Backyard Favourites, un disco di cover e condivisione tra i loro gusti e quelli del pubblico, dove reinterpretano i brani senza mai cambiarne la natura, rispettandone con dedizione le atmosfere di fondo, ma dando anche una certa sfumatura di contemporaneità.
Rimangono sospesi con delicatezza tra passato e presente, così come la loro immagine suggerisce: tra ukulele e tatuaggi, washboard e look anni ’50. Fanno sì musica che ha radici antiche, ma che non passerà mai di moda.
Ecco un estratto dell’intervista rilasciata a Michela Favale.
Siete stati in tour un po’ ovunque: che differenza c’è tra il pubblico italiano e quello straniero? Che cosa accomuna il blues a un paese solare e con una tradizione melodica come l’Italia?
Max & Veronica: Anche nel blues c’è molta melodia, tantissima; forse è anche questo uno dei motivi che ci hanno stregato di questa musica. Non pensiamo che il blues sia solo e banalmente una musica malinconica.
È tanto, tanto altro. Dal blues è nata la musica di ‘protesta’ più popolare del mondo: il rock ‘nʼ roll. Il pubblico all’estero è sempre un po’ più acculturato del nostro, nel senso di conoscitore del genere, amante della musica acustica e spesso musicista. Amiamo suonare all’estero e abbiamo sempre grandi soddisfazioni sul palco.
Come si inserisce nel vostro percorso musicale il nuovo album Backyard Favourites e come si distingue rispetto ai vostri lavori precedenti?
M. & V.: L’ultimo disco è un po’ la continuazione di quello che abbiamo iniziato con il precedente Old Stories for Modern Times [2012], una sorta di riscoperta e rivisitazione, nel nostro stile, di brani più o meno oscuri della tradizione americana dei primi del secolo scorso. Si differenzia per il suo essere ‘essenziale’, scarno. La strumentazione è ridotta al minimo e gli arrangiamenti pure. E non ci sono pezzi autografi.
Siete italiani e lombardi: che collegamento c’è tra il vostro paese e la lontana America del secolo scorso di cui suonate i brani? In che modo siete venuti in contatto con questo sound?
V.: Ognuno di noi due, a suo modo, è rimasto profondamente colpito e affascinato dalla musica nera americana e da quello che comunemente viene chiamato blues. Ed entrambi in giovane età. Nel mio caso grazie ai miei genitori, nel caso di Max è stata quasi una ricerca personale. Il collegamento c’è ovviamente, tra la nostra musica moderna e la musica americana di inizio secolo scorso. Tutto proviene da lì!
Quali sono i vostri strumenti favoriti, parlando anche di marche e modelli ecc.?
M.: Una Gibson LG-1 del 1951, una Gibson Carson J. Robinson del 1934 e una Epiphone Serenader 12 corde del 1968.
V.: Una chitarra tenore Regal del 1927 e la mia washboard Columbus.
Veronica, come ti sei avvicinata al washboard e come influenza e favorisce il ritmo della vostra band? In quanti modi creativi si può utilizzare e come viene inserito nei vostri brani? Dal vivo ottieni anche delle sonorità molto simili a quelle della batteria suonata con le spazzole: se non erro utilizzi proprio delle spazzole per capelli?
V.: Esatto! Uso delle comuni spazzole per capelli, con i denti in metallo. Ho iniziato a suonare ‘la’ (io uso il femminile…) washboard per aggiungere qualcosa di skiffle al nostro piccolo combo.
L’uso dei ditali da cucito però era per me davvero faticoso e, una sera, un amico mi ha suggerito di provare a usare una spazzola: da allora non ho più smesso! Il sound che cerco di creare è più simile al rullante della batteria. Soprattutto sui ritmi più sincopati e ‘swingati’ è un vero divertimento suonarla!
Durante un live avete parlato dell’approccio del Reverend Gary Davis al ragtime. Dato che il ragtime è stato prevalentemente un genere pianistico, quali altri riferimenti chitarristici vi hanno ispirato in questo senso?
M.: Blind Blake è stato l’altra mia grande influenza. Persino il Rev. Gary Davis, che non aveva buone parole per nessun chitarrista, ha avuto una buona parola per lui: diceva che aveva una sporting right hand! A parte questo, nessuno è mai riuscito a riprodurre il sound di Blind Blake fino ai giorni nostri. Era veramente insuperabile, lo consiglio a tutti quelli che ancora non lo conoscono.
Dal vivo vi esibite da soli: facendo generi che venivano interpretati anche da band, in che modo arricchite la vostra musica per sopperire alla ‘mancanza’ di altri musicisti?
M. & V.: Pestiamo di brutto sugli strumenti!
Il resto dell’articolo su Chitarra Acustica n.01/19.
Aggiungi Commento