I due effervescenti chitarristi emiliani intercettati fra un tour e l’altro per parlare dell’ormai frequente presenza in Cina e dei loro programmi in generale.
Eugenio Polacchini e Matteo Minozzi, il Bruskers Guitar Duo, sono una ‘straentità’ a quattro mani, due teste e un un numero imprecisato di corde, in cui non si capisce bene dove inizia l’uno e finisce l’altro. Ma il risultato ti lascia sempre a bocca aperta: due anime musicali, moderna e classica, costantemente a confronto, alla ricerca di un terreno comune. E in musica, si sa, tensione e diversità stimolano la creatività e possono dare ottimi frutti.
Avete fatto promozione, letteralmente, in tutto il mondo. Siete appena rientrati dalla Cina, com’è andata questa esperienza?
M.: Anche questa volta l’esperienza ci ha fatto rientrare a casa arricchiti. I concerti sono stati emozionanti e partecipati, ma – terminata l’euforia del successo personale – l’aspetto più positivo è stato aver rinnovato la possibilità di confrontarsi con una cultura così differente dalla nostra.
Ammetto, con onestà e un po’ di vergogna, che un tempo affrontavo le nuove esperienze in terre esotiche parzialmente offuscato dai pregiudizi dettati dalla nostra cultura eurocentrica (e ora, ahimè, sempre più ‘Italia caput mundi’). Fortunatamente, ricevo tutte le volte la conferma che ogni popolo e cultura è complementare agli altri.
La Cina è un colosso che può effettivamente destare timore, ma è una nazione ricca di tradizioni affascinanti e invidiabili; e, al contempo, è un paese culturalmente vorace e curioso.
Per noi musicisti è un terreno fertile, in particolar modo per noi italiani, che in giro per il mondo siamo sempre stimati e ‘venerati’. Inoltre, e lo dico da italico ‘schizzinoso’, nel paese del Dragone si mangia pure bene!
E.: Per me, personalmente, quest’ultima è stata un’esperienza forte, di cui mi ricorderò certamente. Eravamo stati altre due volte in Cina, ma questa è stata un po’ speciale. L’accoglienza, la gentilezza che abbiamo incontrato e la partecipazione ai nostri concerti sono andate oltre le mie aspettative.
Trovare teatri da 300-400-500 posti esauriti per noi, a volte, lo ammetto, mi ha fatto quasi commuovere.
Ci raccontate un aneddoto che vi è rimasto particolarmente impresso durante l’ultimo tour?
M.: Non ho dubbi: un pomeriggio l’organizzatore del nostro concerto nella città di Hangzhou ci ha portato in visita ad alcuni negozi e scuole di musica, dove abbiamo incontrato musicisti, docenti e studenti.
In una di queste scuole, in cui la visita era prevista per soli pochi minuti prima di avviarci al soundcheck, ci ha accolti un’orchestra di chitarre di ragazzi cinesi dai sei ai sedici anni, vestiti eleganti come per le grandi occasioni.
Siamo entrati nella stanza ignari di tutto e, appena abbiamo aperto la porta, si sono messi a suonare: avevano preparato questa sorpresa per noi. È stato a dir poco emozionante, un vero onore. Quest’orchestra di chitarre ha poi aperto il nostro concerto lì ad Hangzhou.
E.: È stato veramente commovente… Cioè, avete presente i video che su YouTube mostrano questi gruppi di bambini cinesi, giovanissimi, che suonano in modo perfetto, muovendosi a tempo, sorridendo tutto il tempo? Ecco: ce li siamo trovati davanti! Fenomenali ed elegantissimi nei loro costumi tradizionali!
Vi ripropongo una domanda già posta qualche anno fa: com’è vivere di musica ai tempi della crisi?
M.: Ritengo che in ogni periodo di crisi sia sempre stato difficile sopravvivere facendo cultura. Il problema più evidente, quello che ribolle nella pancia di ciascuno, è sicuramente quello economico. Ma la crisi, più profonda, è il decadimento culturale, l’imbarbarimento dei costumi e la superficialità dilagante.
Parallelamente all’attività concertistica, sempre faticosa da portare avanti qui in Italia, abbiamo la fortuna di svolgere l’attività didattica presso un’importante scuola di musica del nostro territorio modenese, la Fondazione Carlo e Guglielmo Andreoli.
L’insegnamento è fonte di arricchimento per tutti, indifferentemente per studenti e insegnanti. Negli ultimi anni, però, la figura del docente sta perdendo valore, si indebolisce sotto gli occhi di una società che non ha più pazienza di aspettare che i frutti del lavoro possano maturare.
Il maestro è svilito nella sua funzione di mentore, da parte di genitori saccenti e approssimativi, padri e madri con l’unico desiderio di vedere i propri pargoli rilassati e non stressati dal lungo, tedioso e ‘inutile’ lavoro di formazione necessario per forgiare la personalità e il carattere di un uomo in divenire.
E, in conseguenza di questi atteggiamenti, i ragazzi crescono pigri e privi di curiosità.
Un allievo che – annoiato e stanco – abbandona la scuola di musica, si traduce in un adulto che non ascolterà musica, che non andrà a vedere concerti e non comprerà dischi… Che non darà il proprio impegno nella crescita culturale del proprio paese.
Nelle mie parole la componente ‘musica’ è un pretesto: il discorso vale in generale per tutto. Pertanto il compito di noi musicisti e insegnanti è di evitare il dilagare dell’indifferenza: è distribuendo bellezza che si debella l’ignoranza.
E.: Mi permetto di aggiungere, che per fortuna il decadimento culturale ha qualche bella e luminosa eccezione che mi fa pensare che prima o poi si apriranno nuove porte all’arte.
Al momento noi abbiamo poche occasioni in Italia per suonare, e sono decisamente differenti dalle belle opportunità che troviamo all’estero, al momento soprattutto in Cina. Ma amo molto questo nostro paese e confido di poter lavorare di più qui, un giorno…
Il resto dell’articolo e dell’intervista firmati da Mario Giovannini su Chitarra Acustica n.07/19.
Aggiungi Commento