E poi il ’67 fu l’anno della Summer of Love, del mitico festival di Monterey e dell’esordio di quella che sarebbe diventata una delle più grandi band della storia: i Pink Floyd pubblicano The Piper at the Gates of Dawn.
Per anni si è fissata la data di uscita al 5 agosto, ma dopo attenti studi lo storico musicale Glenn Povey, coinvolto anche nella recente mostra londinese Their Mortal Remains, ha stabilito che la data esatta di pubblicazione fu il 4 dello stesso mese (cfr. The Complete Pink Floyd – The Ultimate Reference).
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Il disco irrompe in una scena, come suddetto, di estremo fermento. La psichedelia dà grandi frutti e qui si innestano come veri maestri i Pink Floyd, già famosi in casa propria per i loro concerti dalle atmosfere più che “dilatate”, in grado di coprire ore con una manciata di brani in cui si viaggia all’interno di improvvisazioni sonore decisamente lisergiche.
Alla guida della band c’è Syd Barrett, giovane promessa che porta con sé una creatività fuori dal comune. Chitarrista sicuramente più “bizzarro” che tecnico, ma rivoluzionario al pari di illustri colleghi, porta la band in territori compositivi mai sentiti prima, che fanno tremare le fondamenta di chi già vanta da anni titoli reali, prima di tutto i Beatles, che li ascoltano negli studi di Abbey Road durante le registrazioni rimanendone estasiati.
D’altronde dietro la produzione dell’album c’è Norman Smith, al fianco dei 4 baronetti fino a Rubber Soul e che produrrà anche il secondo album dei Floyd, A Saucerful of Secrets.
In The Piper manca il noto brano “Arnold Layne”, poiché già pubblicato come singolo (con “Candy and a Currant Bun” sul lato B) e la band voleva che l’album contesse solo inediti. Nell’edizione inglese non è presente neanche la canzone “See Emily Play”, che viene invece inclusa nell’edizione giapponese e in quella americana pubblicata in ottobre.
Accanto alla genialità folle di Barrett, purtroppo come ben sappiamo di lì a poco stroncato dall’abuso di allucinogeni, si stagliano le atmosfere di Richard Wright, che in questo album è la vera spalla del leader, con una sezione ritmica formata da Nick Mason e Roger Waters.
Quest’ultimo non mostra ancora pienamente la sua personalità da leader, che verrà fuori prepotentemente negli anni successivi anche a livello compositivo (qui firma un solo brano a suo nome, “Take Up Thy Stethoscope and Walk”), impegnato con Mason a dare il massimo come energia nell’esecuzione anche per coprire i limiti tecnici sullo strumento.
Mai come prima la parola “caleidoscopio” si adatta all’ascolto di questo album e possiamo solo immaginare la sensazione di un giovane che metteva per la prima volta la puntina di un giradischi sui suoi solchi.
Il 1967 è l’anno in cui più volte gli appassionati di musica diranno “e questa che roba (bellissima) è?“, dalla chitarra from outer space di Hendrix, ai primi accenni di progressive rock (è anche l’anno del primo album dei Procol Harum), a quest’opera prima figlia di una band fino ad allora semi-sconosciuta e che ora gridava a gran voce “siamo arrivati e da oggi niente sarà più lo stesso“.
E infatti no, niente lo sarebbe più stato.
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