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Proviamo a parlare dei Måneskin?

C'è un argomento caldissimo nell'attuale panorama della musica italiana, tanto online quanto offline, il quale può essere riassunto nella parola Måneskin.

I Måneskin, i successi e l’impatto sull’opinione pubblica

Il motivo per cui il titolo dell’articolo è in forma di domanda è semplice: quando si tirano in ballo i Måneskin non si sa mai che piega possa prendere la discussione. Da un lato c’è chi grida al miracolo, dall’altro chi grida allo scandalo, e come sempre accade di fronte a un fenomeno di larghe proporzioni il confronto può portare a sviluppi non esattamente costruttivi.
Mi viene dunque spontaneo aprire questa riflessione con un piccolo invito al dialogo, augurandomi che l’articolo possa aiutare proprio a questo scopo.

Partiamo dai fatti, in ordine cronologico inverso. L’ultima notizia è che la band romana ha vinto il premio Best Rock Act agli MTV Europe Music Awards: primi artisti italiani a riuscirci, superando tra l’altro una rispettabile compagnia di avversari tra i quali Foo Fighters e Coldplay (so che chi legge si sta domandando quanto sia giusto definire “rock” gli attuali Coldplay, ma non tuffiamoci in un ginepraio).

È il più recente trionfo di una serie niente affatto trascurabile, in un anno che li ha già visti vincitori del Festival di Sanremo e dell’Eurovision Contest; all’edizione 2017 di X-Factor, talent che li lanciò all’attenzione nazionale, arrivarono invece secondi, ma oggi come allora resto dell’idea che abbiano “vinto” a prescindere.

I fatti diventano numeri, ad esempio quelli dei loro stream su Spotify: quasi 800 milioni per la loro cover di “Beggin’“, mentre oltre 250 milioni per “Zitti e buoni“, niente male per un brano col testo in italiano.
Ma siccome i numeri raccontano una verità parziale, e i premi potrebbero non dire a sufficienza, si può aggiungere che i quattro ragazzi sembrano raccogliere consensi ovunque: al di là delle ragioni commerciali che possono esserci dietro, non è da tutti poter raccontare un featuring con Iggy Pop o l’apertura di un concerto dei Rolling Stones (e non a Roma o Milano per ragioni di praticità organizzativa, bensì a New York).

Se andiamo a sommare tutto questo, il risultato non può che essere un livello di esposizione pubblica a dir poco immane. Con tutto ciò che comporta la mediaticità di un fenomeno, a maggior ragione se amplificato dal web, vale a dire una massa critica di discussione pressoché inesauribile, attorno alla quale si raccolgono senza sosta tanto i fanatici della band quanto i suoi detrattori, e tutti coloro che stanno tra i due estremi.

Le ragioni delle diatribe attorno ai Måneskin

Ed è a questo punto che bisognerebbe iniziare ad affrontare la questione da presupposti costruttivi, se proprio la si vuole sviluppare. A mio avviso, si sono dissipati troppo tempo e troppe energie dietro a presupposti poco sensati come “non sono Rock” o “i nuovi Rolling Stones“; le etichette servono a poco, i paragoni a priori anche. Non è una verità assoluta, ma una semplice questione di buonsenso.

Uno degli elementi che posso osservare dal punto di vista del detrattore medio, ma con maggior lucidità in quanto mi sento toccato poco o nulla dalla questione, ha a che fare col gap generazionale. La conformazione della band e la tendenza verso un certo tipo di sonorità fanno sì che si parli dei Måneskin come di una rock band: con tutte le cautele del caso, la definizione può risultare ostica per chi è cresciuto sulla scorta di riferimenti di tutt’altro tipo ma di identica definizione.

Forse bisognerebbe ricordarci che, pur parlando di spazi musicali assimilabili, c’è un fattore che influenza in maniera decisiva l’ambito comunicativo: la differenza d’età; un fattore che può pesare con grande incisività anche se il “linguaggio” utilizzato è quello della musica.
Pertanto non dovrebbe destare stupore se il messaggio veicolato non arriva a destinazione nello stesso modo rispetto a quello creato da chi ci è coetaneo e che quindi ha vissuto il mondo e l’esistenza da una prospettiva decisamente più assimilabile alla nostra, a differenza di questi quattro ragazzi ventenni o poco più.

Un altro degli aspetti che a mio parere genera più confusione e soprattutto distoglie dalla sostanza della questione (vale a dire l’elemento musicale) è quello che riguarda l’estetica.
Senza dubbio stiamo parlando di una band dall’immagine non casuale, che vuole rappresentare un punto di forza mediatico: come spesso accade, questo tipo di orientamento rischia di spostare l’attenzione dalla musica all’aspetto, a discapito della parte più strettamente contenutistica.

E l’estetica eccentrica dei Måneskin dà effettivamente occasione ad alcuni detrattori di additare la band come un fenomeno di costume più che musicale e che venderebbe più per una questione di moda che di cifra artistica.
Ho una prospettiva del mercato e dell’attualità davvero troppo limitata per poter dire se hanno torto o ragione. Mi limito quindi a riflettere sul fatto che ogni artista mainstream porta con sé una propria identità estetica: può essere iper-espressiva come quella dei Kiss o minimalista come quella di Kurt Cobain, ma a prescindere da questo si tratta di un qualcosa che rende gli artisti riconoscibili, e quindi in un certo senso commerciabili.

Ma forse questa considerazione dovrebbe essere uno spunto in più per ricordare a noi stessi che la musica si ascolta, non si guarda.

Saltare sul carro dei Måneskin, a qualunque costo?

Comunque la si voglia guardare, i quattro giovani musicisti hanno percorso molta strada se si guarda il video qui sopra (anche in termini di qualità della performance musicale, a voler essere pignoli). Il successo è tale che, se da un lato non mancano le suddette ostilità, dall’altro ha prodotto una enorme ondata di consenso fuori e dentro il mondo degli addetti ai lavori.

Ma soprattutto, il riscontro mondiale che i Måneskin stanno portando a casa li ha oggettivamente resi un fenomeno di riferimento.
E quando in questa epoca un fenomeno diventa trending, ecco che lo si rintraccia ovunque e può diventare un’occasione per chiunque sia alla (più o meno disperata) ricerca di un qualche traino di visibilità; sì, anche partendo da presupposti di conflitto, come intavolando polemiche campate in aria per associarsi a una keyword che sta andando forte.

Provo a osservare la questione dal punto di vista di chi scrive, ovvero l’addetto ai lavori dell’editoria musicale. Come redazione potremmo pubblicare contenuti giornalieri sul tema, agganciandoci a una delle tantissime situazioni che si originano di continuo da questo vortice mediatico chiamato Måneskin. Non lo facciamo di certo non per una precisa presa di posizione nei confronti del gruppo (al quale per inciso si riconosce il valore di aver ridato visibilità alla musica suonata con strumenti tradizionali), ma perché la sovrabbondanza di informazioni analoghe non ci appartiene come persone prima che come professionisti.
In sintesi, siamo convinti che sfruttare una moda come se non ci fosse un domani sia una delle migliori strade verso la noia.

Da persona la vedo esattamente nello stesso modo, e sono certo che dopo aver affrontato la questione in questo contenuto rivelatosi più ampio di quanto preventivato in partenza, passerà davvero parecchio tempo prima che mi venga nuovamente voglia di occuparmi della band dal punto di vista redazionale, fatte salve motivazioni di natura strettamente musicale attualmente imprevedibili.

Al tempo stesso sentivo che era necessario dedicare un contenuto ai Måneskin e alla consistenza della discussione che si sta facendo attorno a loro. Resto dell’idea che negare ostinatamente un fenomeno a parole non lo rende meno reale nei fatti, che in questo caso sono rappresentati dall’efficacia che la band sta avendo sul mercato e sul pubblico; ma per enorme che sia tale fenomeno, la sua importanza non comporta il doverlo apprezzare a tutti i costi, né tantomeno doverlo utilizzare in continuazione come spunto di discussione o di opportunità.

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