Da qualche mese un nuovo fantasma si aggira nel mondo della musica. Una band di giovanissimi americani che ha attirato l’attenzione per la capacità di suonare e cantare come gli idoli dei loro padri. Fioccano i paragoni, a iniziare da Page e Plant, fino a dare motivi di speranza a quelli che già piangevano il Rock per morto. Ma è proprio Greta Van Fleet il redentore che tutti ansiosamente aspettano?
Prima domanda: cos’è questo benedetto Rock, che avrebbe bisogno di essere “salvato”? Se parliamo dei suoni e del look delle grandi band del passato, allora giochiamo facile. Dagli stessi talent show, odiati e ascoltati per ragioni diverse, ne sono uscite varie di band dotate di un certo talento o almeno delle caratteristiche di base.
Ma se parliamo di altro, di ciò che realmente all’epoca distingueva subito i personaggi chiave dal resto del mucchio, proprio non ci siamo.
Attitude = parola oggi generalmente mal tradotta che nel vocabolario anglofono viene usata per descrivere quello che per noi è “atteggiamento”, la modalità che si sceglie per esprimersi. In questo senso, per dimostrare una “rock attitude” potrebbe bastare imparare a muoversi sul palco in maniera sufficientemente “selvaggia” o sexy da stimolare il ricordo di personaggi come Plant o torturare la chitarra come Hendrix? Forse è un po’ pochino.
Ci si chiede se questo possa mai funzionare senza avere anche una vera “attitudine rock”, secondo il significato corretto della parola, cioè quel magico ingrediente che non si inventa dal nulla. O ce l’hai o non ce l’hai. Dalla nascita.
Plant, Page, Bonham e Jones ce l’avevano senza dubbio. Ricordo (me lo posso permettere…) l’effetto che faceva ascoltare in radio pezzi come “Whole Lotta Love”, “Moby Dick”, “Heartbreaker” alla loro uscita. Un altro mondo che si affacciava e ti parlava con parole a volte inquietanti, facendoti capire che c’era dell’altro lì fuori.
Era una scoperta continua di qualcosa di nuovo, di diverso. All’epoca non sapevi neanche come si faceva a suonare o cantare così. Iniziava la ricerca.
Ed è allora, nei primi anni settanta, che si è veramente iniziato a parlare di Rock, distinguendolo da altre categorie – rock’n’roll e pop compresi – per farne un genere da dividere subito in varie sotto-specie fino a creare, forse, le cause stesse della sua decadenza.
In quel periodo i primi grandi festival Rock venivano vissuti spesso come alternativa se non come protesta, in contrapposizione a uno stile di vita troppo conformista, noioso, inappagante, apparentemente privo di stimoli.
Nello stesso momento, il pragmatico Jimmy Page aveva chiaro fin dall’inizio di puntare al successo e ai soldi, ma ciò non toglie nulla al carattere dirompente dei Led Zeppelin, che sono piombati sul mercato discografico con una deflagrazione epocale più o meno all’età che hanno oggi i quattro Greta.
Non erano gli unici a suonare grande musica, come è noto, ma probabilmente erano tra quelli con le idee più chiare e con quantità di talento da scialare, per non parlare di questa benedetta attitudine Rock.
A distanza di quasi 50 anni sembra quasi di parlare dell’età della pietra, di una favoletta da raccontare ai nipotini (eh, sì… Plant è nonno da un bel pezzo), e siamo in un momento critico per il cosiddetto Rock. La chitarra stessa, lo strumento che ne è stato il simbolo e la bandiera fin dall’inizio, vive tempi molto difficili, lontana dai fasti di un passato in cui era quasi d’obbligo la sua presenza in ogni casa.
Quando ho scoperto per caso, dal post di un “amico” Facebook (sign o’ the times… direbbe il principe) l’esistenza dei Greta Van Fleet, mi sono messo subito al lavoro per capire chi fossero. Tre fratelli del Michigan + un coetaneo alla batteria, età media 19 anni e mezzo.
Subito rivenduti come “nuovi Led Zeppelin”, la band che “riporta il Rock al suo futuro” all’uscita del loro primo EP, lo scorso anno. Pronti ad affrontare il loro primo sold-out tour.
Il look è da boy-band e l’espressione facciale è un po’ meno convinta del concorrente medio di Maria De Filippi. Di contro, il sound è notevole con una buona ritmica e una chitarra coerente con il contesto 70s pur senza troppe faville.
La differenza la fa l’ugola potenziata del cantante Josh Kiszka, 21 anni, gemello del chitarrista Jake e fratello del diciottenne Sam, bassista e tastierista. Le sue grida selvagge sono quasi surreali davanti al viso angelico e riccioluto.
Dopo l’EP contenente qualche canzone originale di stampo esplicitamente zeppeliniano e alcune cover che denunciano genitori dai gusti variegati – interessante quella dei Fairport Convention, vergognoso l’affronto a Sam Cooke – si avvicinano all’appuntamento con il primo vero album.
Hanno i numeri per farne qualcosa di realmente interessante? A una “promessa” del Rock sarebbe lecito chiedere musica perlomeno “sorprendente”, ma forse pretendiamo troppo.
Nel frattempo sono già memorabili alcune dichiarazioni dei giovani rampanti rocker. Josh, che ha una voce senza dubbio molto potente ma almeno per il momento si può solo sognare le dinamiche di Robert Plant, generosamente dice che il paragone con gli Zeppelin è “accettabile”. Allo stesso tempo mette assieme fra le sue influenze Howlin’ Wolf, Wilson Pickett e… John Denver.
Jake, il chitarrista, va sorprendentemente dritto alle radici e mette in lista Elmore James, Muddy Waters, John Lee Hooker, ma confessa di aver studiato nei dettagli i Cream e soprattutto Jimmy Page.
Sam è un buon bassista e si può permettere anche di accompagnare all’organo, mani e piedi. Danny Wagner non è Bonham, ma suona la sua batteria con la dovuta energia e una dose sufficiente di groove. Siamo ben oltre la sufficienza.
Il loro Black Smoke Rising è uscito solo la scorsa primavera e il singolo “Highway Tune” è andato dritto al primo posto in varie classifiche Rock nelle radio americane e canadesi.
Mentre Rolling Stone si chiede se non possano essere proprio loro a salvare il Classic Rock notando la giovane età del pubblico che accorre sempre più numeroso ai concerti, i quattro si accertano di avere a portata la fatidica bottiglia di Jack Daniel’s prima di ogni show ma si premurano – almeno a parole – di mantenere le distanze dagli eccessi che sono da sempre ritenuti parte integrante del grande circo che circonda questa musica.
Che dire… il fatto che i Greta Van Fleet possano essere presi sul serio come futuro o speranza del Rock non conforta affatto, per non dire che è un po’ inquietante. Nella totale confusione di valori e significati che è caratteristica del nostro tempo, però, non stupisce molto.
E continua a tornarmi in mente una scena significativa di un vecchio film di Nanni Moretti, davanti ai discorsi vuoti di un improponibile uomo politico. Qui forse avrebbe detto: “E dai, suona qualcosa di veramente Rock… suona del Rock… suona… qualcosa!“
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