Un comunicato ufficiale della Zappa Family Trust ha rivelato che, per il venticinquesimo anniversario dalla morte, Frank Zappa tornerà a calcare i palchi sotto forma di ologramma nel Back On The Road: The Hologram Tour, previsto nei primi mesi del 2018. Il primo pensiero che mi è venuto in mente alla notizia, no, non ve lo dico. Il secondo pensiero, invece, eccolo: credo che la morte di Zappa non sia mai stata del tutto metabolizzata.
Andarsene così, a neppure 53 anni, in quei primi Novanta che vedevano il rock avvitarsi su se stesso innescando cortocircuiti sempre più fitti, che vedevano il rock – ok, diciamolo – iniziare a morire.
Che poi non era un morire ma uno spostarsi, un togliersi dal centro cruciale della scena, e lo faceva – non casualmente – mentre si consumava il passaggio di consegne tra supporti analogici e CD, la cui spinta propulsiva da un lato fece impennare i fatturati dell’industria musicale e dall’altro – che poi era anche un po’ lo stesso – rimise in circolo repertori trentennali (e giù coi cortocircuiti, e vai coi ponti tesi fino al passato e ritorno).
Insomma, Frank, uscire di scena proprio in quei giorni: porca miseria che peccato. Se fosse rimasto, chissà cosa avrebbe potuto cavare da quella fase così impetuosa e assieme normalizzante, da quel crepuscolo febbrile e sempre più sfaccettato, lui che usava sempre sbattere la polpa rigida dei manierismi rock sullo scoglio di un sarcasmo avventuroso per poi gettarli oltre l’ostacolo della consuetudine.
Ascoltare i suoi dischi da ragazzino, senza cioè saperne molto al di là di quei baffoni, lo sguardo caustico e il volto scolpito con l’accetta rugginosa degli outsider, mi procurava sensazioni di meraviglia e sconcerto.
A dire il vero più sconcerto che meraviglia, a cui si è sempre accompagnata una punta di repulsione. Di cui oggi mi è chiaro il senso: è la repulsione che si accompagna – deve farlo – alla percezione del corpo estraneo.
Lo era, Frank, un corpo estraneo, in virtù di quella sua trasversalità (blues, funk, jazz, progressive, colta e contemporanea, rock a vari gradi di intensità…) che rendeva impossibile – per ellissi di limite – una qualsiasi appartenenza.
Pensando a tutta la post-modernità che si è fatta prassi, alla riflessione sul senso del fare musica che si è fatta musica, alla musica insomma sentita nelle ultime due decadi, viene da ipotizzare che anche Zappa avrebbe potuto sfornare i lavori della profonda maturità, il suo Time Out Of Mind, il suo Magic And Loss, i suoi American Recordings.
Chi avrebbe potuto farlo meglio di lui, Frank Vincent Zappa, che già nel ’63, implume e azzimato, si presentò come ospite allo Steve Allen Show per dimostrare – indifferente all’ironia caustica del conduttore – come e quanto fosse possibile cavare musica da due biciclette? Ripeto: due biciclette.
Certo, le mie sono soltanto ipotesi sornione, campate in aria senza accampare pretese. Scherzi di una memoria testarda soggetta a frequenti conati di rimpianto. Ma credetemi se vi dico che di un pesce strano così, di un pesce così strano, il rock – il mondo – ne avrebbe ancora bisogno.
Invece, di un ritorno così strano – strano così – no, non credo. Questo, per la cronaca, è stato il terzo pensiero.
Stefano Solventi
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