Una grande canzone, “Take Me To The River” e una storia intrigante che unisce Dio e carnalità, il soul e il rock iconoclasta di un visionario come David Byrne.
Quasi impossibile a volte prevedere come si possa creare un filo di collegamento fra personaggi apparentemente molto lontani tra di loro.
Eppure la musica può arrivare ad essere un linguaggio così trasversale da fare anche questi miracoli.
Per Al Green, uno dei personaggi più importanti ed influenti della soul music, tutto inizia da ragazzo con il gospel assieme ai fratelli, finché non scopre la carica di Elvis Presley e nuovi cantanti come Jackie Wilson.
Negli anni sessanta cerca anche lui questo tipo di carriera fino all’incontro con il produttore Willie Mitchell che lo mette sotto contratto con la sua etichetta di Memphis.
Il successo arriva nei primissimi anni ’70 grazie allo stile raffinato e alla sua personalità. Al sale alto in classifica con “Let’s Stay Together”, “You Ought To Be With Me”, “Here I Am (Come and Take Me)”.
Una delle canzoni dell’album Al Green Explores Your Mind, nel 1974, si intitola “Take Me To The River”.
È un esempio tipico del soul di quegli anni, con gli archi che si insinuano fra le righe dell’asciutta ritmica dei fratelli Hodges (il chitarrista Mabon è coautore con Green) e i fiati imperiosi dei Memphis Horns, uno dei marchi di fabbrica più prestigiosi di questo genere.
Green la interpreta con sobrietà e un suo riconoscibile tocco, alla pari di altri successi del periodo.
Il testo alterna riferimenti a un rapporto quasi adolescenziale e momenti più esplicitamente passionali, in apparente contrapposizione al ritornello che sembra ben piantato in una tematica religiosa, quasi una richiesta di purificazione battesimale.
Non è un caso che il cantante sia diventato da pochi mesi “born again christian”, secondo un percorso comune ad altri rinomati colleghi (poco più tardi sarà la volta di Dylan).
L’album è appena uscito nei negozi quando, una mattina dell’ottobre 1974, nella sua casa di Memphis, Al Green viene ferito gravemente da una sua spasimante che, poco dopo, si toglie la vita con la sua stessa pistola.
Ne esce con gravi ustioni e un forte shock. Dopo mesi di ospedale arriva un cambio di rotta.
Appena trentenne, il cantante fonda a Memphis la Full Gospel Tabernacle Church e diventa predicatore Battista. Dall’anno seguente anche la sua produzione musicale subisce una svolta religiosa, che diventa radicale dopo una caduta dal palco nel 1979, accolta come un richiamo dall’alto.
Green affronterà quasi per intero gli anni ’80 su questa linea per poi tornare ad integrare nel suo repertorio musica più “profana”, con un successo più o meno costante nel tempo. Numerosi premi, gratificazioni e collaborazioni illustri arrivano nel nuovo millennio, dopo essere stato addirittura ammesso nella Rock and Roll Hall of Fame.
Le ragioni di quest’ultimo riconoscimento, in particolare, ci riportano a “Take Me To The River” e al 1978, quando i Talking Heads pubblicano More Songs About Buildings and Food, – lo stesso di “Psycho Killer” – arrivando per la prima volta nei Top 30 proprio con una cover della canzone di Green.
Alfieri della new wave newyorkese più sofisticata, sono prodotti dal geniale Brian Eno, sperimentatore all’apice della popolarità internazionale. Nella loro cover, David Byrne e soci si lasciano trascinare dalla ritmica ipnotica della canzone, anticipando future evoluzioni alla ricerca di un funk trasversale e iconoclasta.
Nelle loro mani diventa un soul-rock psichedelico scandito dal pulsare di una scarna batteria dal riverbero spaziale. È però soprattutto il riff martellante del basso di Tina Weymouth, assieme agli svolazzi dell’organo di Jerry Harrison, a creare un tappeto ideale per la vocalità stralunata di Byrne, capace di cogliere l’essenziale e allo stesso tempo stravolgere con la massima disinvoltura.
Da non perdere la versione immortalata da Jonathan Demme verso la fine del film Stop Making Sense, con Byrne nel suo impossibile enorme completo bianco e una band potenziata da cinque elementi che dilata fino all’inverosimile il groove della canzone.
Quella dei Talking Heads non è l’unica cover illustre di “Take Me To The River”, ma è innegabile che l’assist dei Talking Heads abbia fruttato molto nel tempo alla popolarità di Al Green presso platee alternative alla sua.
Quando esce la sua autobiografia, nel 2000, il titolo che sceglie è proprio quello della canzone.
Aggiungi Commento