Tra questi 10, siamo sicuri, ci sarà anche il nome di Ornette Coleman, che nasceva oggi nel 1930.
Sicuramente uno dei più fortunati in quanto a longevità della vita – è scomparso appena 3 anni fa – Coleman non solo è stato uno dei padri assoluti di questo genere musicale, ma ne è stato anche un punto di svolta, uno di quei musicisti che incidono un segno così forte nel terreno da indicare chiaramente cosa è venuto prima e cosa è stato dopo.
Al tempo fu definito un jazzista d’avanguardia e spesso non fu neanche capito da critici, colleghi e pubblico, soprattutto quando l’impronta del Free Jazz, che ha contribuito ha plasmare e diffondere, si fece molto netta. Tanto da fargli nominare un album con quello stesso titolo, Free Jazz, anche se lui stesso non riteneva giusto portare questa nomenclatura anche all’intera idea musicale.
Nel giorno in cui avrebbe festeggiato il suo compleanno, consigliamo a chi ancora non ne conosce le opere alcuni degli ascolti più indicati per iniziare.
Pur consigliando di non perdersi i primissimi album (Something Else!!!! del 1958 –da non confondere col quasi omonimo Somethin’ Else di Cannonball Adderley dello stesso anno – e Tomorrow Is The Question! del ’59), puntiamo il riflettore innanzitutto sul capolavoro che ci ha trovato tutti concordi in Redazione. Quel disco che fece di Ornette una stella nel firmamento Jazz e indicò a tutti una nuova rotta da seguire. L’album che non deve mancare nella vostra collezione anche se avete deciso di avere solo una decina di album Jazz in casa perché non è il vostro genere preferito.
Si intitola The Shape of Jazz to Come.
Il titolo è già tutto un programma, tradotto: La forma del jazz che verrà.
Ed è effettivamente così, questo album è uscito nel 1959 e contiene una forma di Jazz che al tempo venne considerata avanguardistica, pur essendo decisamente musicale all’orecchio rispetto a future elaborazioni.
È il disco in cui Coleman assolda un altro futuro grande nome, il contrabbassista bianco Charlie Haden.
Dischi come questo dovrebbero essere messi nel vocabolario accanto ai modi di dire “fulmine a ciel sereno“. Lo fu tanto che da ogni lato si alzarono lodi, anche da direttori d’orchestra come Leonard Bernstein. Ornette, il genio, si diceva.
Ma anche “lo svitato“. Non tutti furono così entusiasti, infatti. Così lo chiamò Miles Davis, che in tutta la sua vita si dichiarò contrario alle forme free del Jazz. Con lui anche altri non riuscirono a capire cosa stesse succedendo, dove quella musica nuova stesse puntando. Gillespie stesso rimase stordito e dubbioso.
Se a questo aggiungete l’uso di un sassofono di plastica da parte di Coleman (sarà presente anche in altri dischi, semplicemente non se ne era potuto permettere uno in metallo), capite bene quanto, nel ’59, questo potesse essere provocatorio nei confronti dei colleghi.
E non a caso in questo album suona Don Cherry, anch’egli utilizzatore di strumenti particolari e spesso “cheap”.
Alla batteria un compagno di scuola di Cherry, l’eclettico Billy Higgins, con Coleman sin dal primo album.
A tutte le critiche la risposta di Coleman non si fece attendere. Nel 1960 uscì un album dal titolo che lo dice chiaro e tondo: This Is Our Music (questa è la nostra musica).
Il quartetto vide solo una variazione, alla batteria Ed Blackwell al posto di Higgins.
Si tratta di un approccio a territori più ostici per il pubblico, il suono sia di Coleman che di Cherry è a dir poco “dritto in faccia” e non fa sconti. Impatta, graffia, si addolcisce, torna alla carica, lo senti insinuarsi nella spina dorsale. C’è un unico standard nel disco, “Embraceable You” (brano venuto fuori da operette e musical di Broadway tra il ’29 e il ’30 e attribuito a Gershwin), ma è decisamente nascosto dietro il decostruito stile musicale tanto da renderne difficile il riconoscimento.
A parere di chi scrive, è questo il primo vero disco in cui la musica diventa un vero e proprio “caleidoscopio” e non lo dice a vanvera, visto che uno dei brani si chiama proprio così!
Passiamo ora al disco che abbiamo già nominato prima: Free Jazz: A Collective Improvisation.
Qui le cose si fanno davvero serie. Siamo sempre nel 1960 e la formazione (due quartetti divisi tra canale destro e sinistro del mix stereo, con la sezione ritmica che suona al contempo) è invidiabile: Coleman, Haden e Cherry e il batterista Billy Higgins ancora insieme, cui si aggiungono Eric Dolphy, Ed Blackwell e il grande trombettista Freddie Hubbard.
Ora, il disco lo avvertiva già nel titolo: un’improvvisazione collettiva.
Se volete addentrarvi nel Free Jazz, questo è il vostro album, insieme probabilmente ad Ascension di John Coltrane e poi tutti gli altri.
Assoli che si intrecciano da far impazzire la bussola (anni avanti Coleman chiamerà questa pratica “armolodia“), dissonanze, improvvisazioni di quasi tre quarti d’ora. Non è un disco facile, ma è essenziale per il Free. Da assaporare con la giusta pazienza.
Mancherebbe un live. Bene, concediamoci anche un bel disco dal vivo. Quale?
Beh, una delle proposte in Staff, più che meritevole, è stata un doppio disco (Vol.1 e Vol.2) in trio che fotografa un live show del 1965 nella fredda Stoccolma: At the Golden Circle Stockholm.
Coleman è insieme al contrabbassista David Izenzon e al batterista Charles Moffett. I tre vengono presentati dal personale del Gyllene Cirkeln Club e inizia la magia, con una carica da power trio di un’intensità tale che è impossibile alla fine dei brani non pensare di essere tra il pubblico ad applaudire (in più la buona qualità audio rende il tutto più reale).
Inoltre c’è un fatto assai particolare: in questo album potete assaporare il Coleman polistrumentista, visto che si cimenta anche al violino e alla tromba.
Bene, questo è uno spaccato per iniziare ad assaporare la musica di Ornette Coleman. Ovviamente vi sarete accorti che ci siamo concentrati molto sul periodo dei classici, ma forse è giusto così.
Nei decenni successivi Coleman continuerà a fare moltissimo, passando per situazioni ancora più difficili all’ascolto per poi tuffarsi nelle nuove correnti elettriche degli anni ’70. Impossibile non citare anche quel bel Song X (1985) con Pat Metheny, Haden e Jack DeJohnette, registrato in sole 3 settimane.
Tra l’altro, vi suona le percussioni anche il figlio di Coleman, Denardo (che ovviamente già all’età di 6 anni si era seduto dietro le pelli di una batteria).
Ornette si unì anche al rock, basti citare i casi di Lou Reed (The Raven, 2003) o i live con i Grateful Dead.
Ed è uno che nel 2006, a 76 anni, ha pubblicato un album live (Sound Grammar) per il quale l’anno dopo ha vinto il premio Pulitzer per la musica.
Vi serve altro per iniziare ad ascoltarlo?
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