Dall’ennesimo successo in chiave r’n’b di Charles alla potente versione di Mayer e Scofield passano quasi 40 anni, ma “I Don’t Need No Doctor” non li dimostra.
E quella di Ray Charles non è neanche l’originale. Infatti, è il secondo a inciderla nel 1966, un anno dopo Nick Ashford, autore della canzone con la moglie Valerie Simpson. È lui, però, a farne un successo mentre sbanca comtemporaneamente la classifica R&B nello stesso anno con un’altra loro composizione, “Let’s Go Get Stoned”.
La versione di Charles è più sorniona, valorizza il caratteristico movimento di accordi con un raffinato arrangiamento di fiati, dinamiche rilassate e il minimo sforzo vocale. Più isterica l’interpretazione di Ashford, destinato comunque a un certo successo internazionale con il suo duo matrimoniale, Ashford & Simpson.
Va detto che a metà degli anni sessanta, Ray Charles è già un monumento. Nel decennio precedente ha guadagnato tutte le sue medaglie sul campo operando praticamente da solo la fusione fra musica di chiesa (il gospel) e testi tutt’altro che sacri, garantendo una base di partenza a quella che sarà la musica soul.
Avendo sbancato le classifiche già nel 1960 con l’immortale “Georgia” (altra cover…),con la sua grande intelligenza musicale e una vocalità dal carattere ineguagliabile si può permettere di spaziare fra i generi, piazzando hit addirittura in territorio country, interpretando pop song e affascinando anche il mondo del jazz con la finezza del suo estro.
Come se non bastasse, ancor prima del dirompente James Brown, è forse il primo musicista nero che ottiene dai discografici la gestione diretta delle sue produzioni.
“I Don’t Need No Doctor” è quindi solo una conferma per il musicista noto ormai a livello planetario come “The Genius”.
Le prime cover della (ormai) sua canzone arrivano già agli inizi del decennio seguente, in piena rivoluzione rock. Sono i britannici Humble Pie con le chitarre di Steve Marriott e Peter Frampton a piazzarla al 73° posto in USA nel 1971.
La loro è un’incazzatissima lettura in chiave hard rock, potentissima dal vivo, l’unica che cambia veramente qualcosa anche nella struttura della base ritmica.
La versione dei New Riders of The Purple Sage nel 1972 sfoggia sonorità psichedeliche garantite da un team di musicisti di area californiana che comprende anche Jerry Garcia dei Grateful Dead.
Le caratteristiche chitarrone fuzzose ne fanno un quadretto d’epoca, ma poco di più.
Passa una trentina d’anni prima che qualcuno si avvicini alla canzone con idee più originali. Si tratta del grande chitarrista jazz John Scofield, che nel 2005 decide di dedicare un intero album alla reinterpretazione della musica di Ray Charles (That’s What I Say: John Scofield Plays the Music of R.C.), chiamando con sé a cantarla un astro nascente come John Mayer.
Non ancora trentenne, Mayer ha già conquistato le classifiche pop grazie all’abilità di songwriter e a un certo fascino vocale, ma le sue doti chitarristiche sono un argomento a parte che gli vale l’apprezzamento di colleghi di grande spessore come Clapton e lo stesso Scofield.
La nuova cover mantiene struttura simile all’originale ma sfrutta un efficacissimo riff di base e variazioni di stampo jazzistico nell’arrangiamento.
È tutto sommato quanto avviene anche quando Mayer decide di riprendere da solo la canzone e nel corso del tour del 2007 la registra dal vivo immortalandola nell’album Where the Light Is.
La band ripresa nel concerto di Los Angeles è completa di sezione di fiati e comprende anche Steve Jordan alla batteria e la chitarra esperta di Robbie McIntosh.
In questa ennesima reincarnazione, “I Don’t Need No Doctor” è un piccolo miracolo di fusione fra rock-blues e jazz feel. La chitarra di Mayer caratterizza con una timbrica robusta e grintosa eleganza, integrandosi efficacemente con le finezze armoniche dell’arrangiamento e i pregevoli assolo di tromba e sax.
È un pezzo godibilissimo e non a caso molto amato anche dai chitarristi. Peccato che il grande Ray, scomparso nel 2004, non abbia avuto modo di ascoltarla. Gli avrebbe forse strappato uno di quei suoi enormi, impossibili sorrisi.
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