Bravura, simpatia, groove, grandi album, grande tecnica, vero cuore. In una sola parola, i Rush.
Non sono molte le rock band che a mio parere (o sono molte rispetto a ciò che ci si poteva aspettare, dipende dai punti di vista) hanno reso davvero omaggio alla parola “power trio”. I Rush sono senza dubbio una di queste, un trio di musicisti eccezionali.
E poi, non so come mai, ma quando nella band c’è un bassista/cantante, è difficile rimanere delusi.
Il punto è, per quali album vi ricordate i Rush?
2112? A Farewell to Kings? Permanent Waves? O forse il più celebre di tutti, Moving Pictures, che contiene la straordinaria hit “Tom Sawyer“?
Tutto corretto, ma come molti hanno ignorato a lungo la primissima fase di alcune band (mi vengono in mente i Queen) anche i Rush non sono nati direttamente nelle lunghe suite o nei laboriosi arrangiamenti che li hanno poi decretati tra i Re del Progressive Rock.
No, quando la band è nata, senza ancora il contributo fondamentale di Neil Peart, si trattava di 3 giovani musicisti nelle cui orecchie risuonavano i brani dei Cream, dei Buffalo Springfield, degli Yardbirds, dei Led Zeppelin e così via…
Il loro primo album scatta una fotografia a colori vivaci su questa loro prima indole. Ma non si tratta di un disco “acerbo”, uno di quelli “da completisti”.
Per niente, è un album che, pur staccandosi dalle produzioni successive, ha vita propria e tanto da dire di interessante. Basti prendere un brano come “Working Man“, ancora oggi uno degli inni per i fan della band.
Certo, il loro sound forse non è ancora totalmente maturo, non così personale da riconoscerli a primo acchito. Ma le qualità di base ci sono già tutte, personali e di gruppo.
Non c’è molto da dire, mettetelo su, alzate il volume “a 11” e… sentite un po’ che roba!
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