Lo ammetto, tra i miei dischi da isola deserta questo starebbe di sicuro a farmi compagnia nelle lunghe notti di solitudine. Ma non importa essere sperduti in qualche oceano, potete tranquillamente sedervi sul divano di casa e godervelo in tutto il suo splendore. Una bellezza che non è fatta di registrazioni sopraffine, audiofile.
Non è fatto di arrangiamenti costati ore e ore di analisi dei brani. Non è neanche fatta dall’unione di tanti grandi musicisti insieme al leader. L’umile magnificenza di questo disco è frutto dell’istinto di un grande cantautore, della sua chitarra, di un nastro che gira in un Revox tape recorder, della sua voce a pochi millimetri dal microfono e di tanto, tanto cuore.
Interno del box set in vinile edito da Island Records/ReDISCovered nel 2012 (Remastered at Abbey Road Studios) In Pink Moon troviamo il Drake forse più solo, più introverso, ma anche più puro.
Ogni brano è registrato alla prima take, con grande istintività, senza curarsi di particolari come il rumore delle corde che sfregano sui tasti o la distanza della voce dal microfono. Si sente che il cantante si riprende in maniera diversa, ma tutto è secondario alla musica, fatta di melodie mai scontate che rendono il disco come la famosa scatola di cioccolatini in cui non sai mai quello che ti capita.
C’è da chiedersi come alcuni di questi brani avrebbero reso se arrangiati con una band. Alcuni sembrano pronti a ricevere il battito ritmico di una batteria o un sottofondo di hammond o archi. Ma, d’altronde, questo interrogativo non rende meno forte la convinzione che questa scelta del cantautore sia stata esattamente la migliore. Un rischio certo, che in effetti non rese il disco a suo tempo appetibile per molti. Ma che lo ha reso immortale negli anni.
Ed è facile capire perché il collega John Martyn gli dedicò la canzone che dava il titolo al suo album più bello.
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