Il 2019 è l’anno del 50° anniversario del Festival di Woodstock. Foto, ricordi, racconti, emozioni in un libro edito da Hoepli che davvero non dovreste perdervi.
1969, il rock, la controcultura, gli Stati Uniti, il Vietnam, la rivoluzione della chitarra elettrica, il fango, gli acidi, la musica che risuona fino alla mattina, un pubblico infinito, caos e fratellanza, sballo e ballo, contestazione e comunione.
Questo e molto altro a rappresentare il Festival di Woodstock, ricostruito oramai forse più dal nostro immaginario che dall’esperienza reale raccontata dai testimoni. Perché Woodstock è diventato ben presto un simbolo, di pace, amore, libertà e musica, che ancora oggi conquista la fantasia delle giovani generazioni.
Ma cos’è stato Woodstock davvero? Probabilmente è la cosa più difficile da raccontare. Un festival che nonostante tutto non doveva essere “il più importante”. Che non si aspettava un simile afflusso di persone. Che infatti andò in crisi ben presto, con notevoli problematiche, su e giù dal palco.
Pensare a tutti coloro che oggi raccontano “rinunciammo… se solo avessimo saputo che…“.
Essere ricordati sopra o davanti allo stesso palco da cui Jimi Hendrix suonò quell’inno americano straziato dall’uso della leva.
Di Joe Coker letteralmente (fisicamente) posseduto dalla sua musica. Di quel Santana “oddio da dove è uscito sto fenomeno???“.
Della furia dei The Who in una notte in cui il tempo si è fermato davanti ai tuoni delle plettrate di Pete Townshend.
Di Janis…
Nei vari modi in cui quest’anno si sta celebrando il cinquantenario di questo che è tra gli avvenimenti socio-culturali più importanti del secolo scorso, si inserisce un bel librone edito da Hoepli, scritto a quattro mani da Mike Evans e Paul Kingsbury.
Mike Evans è stato musicista proprio negli anni ’60, ha suonato al Cavern di Liverpool (sì, la casa base dei Beatles) e si è esibito sugli stessi palchi di Led Zeppelin e Bob Dylan, proprio nel ’69. Dopodiché è diventato uno speaker radiofonico e giornalista per la mitica rivista Melody Maker e anche per il The Guardian. Ha scritto vari libri, su Elvis, Ray Charles e in generale sul Rock e sul Beat degli anni d’oro, per un totale di più di 60 pubblicazioni.
Paul Kingsbury è un altrettanto pregevole autore in campo di musica americana, da quella tradizionale a tutto il panorama di musica popolare. Ed è stato anche vice-direttore della Country Music Hall of Fame.
Questi due esperti hanno unito le forze, andando a ricercare tutto il materiale disponibile, per creare questo grande omaggio a Woodstock. In particolare, molto materiale arriva direttamente da Bethel, che per chi non lo sapesse è il nome del sito dove si tenne il festival. È una piccola città fuori New York, immersa in una realtà rurale dove certo gli abitanti, di estrazione culturale assai differente dai vicini metropolitani, non si aspettavano di essere invasi da una travolgente ondata di hippie, i loro colori, la loro musica e… annessi e connessi…
Oggi non ricordiamo il “Festival di Bethel” ma quello di “Woodstock” perché quest’ultima omonima cittadina, che si trova poco distante, era rinomata per essere un centro artistico di un certo rilievo. Non scordiamoci, difatti, che il nome completo del festival era “Fiera della Musica e delle Arti di Woodstock“.
Tornando a Bethel, ancora oggi in città si può trovare il museo in cui tra video, schermi interattivi, memorabilia e quant’altro, si viaggia tra i ricordi del grande show. Un’esperienza che deve essere notevole, visti i premi Muse assegnati al museo nel 2008. Se siete curiosi collegatevi a bethelwooscenter.org.
Insomma, da questo museo è arrivata gran parte del materiale confluito in questo libro.
Ah già, non vi ho ancora detto come si chiama, il libro. Niente di più semplice: Woodstock, i tre giorni che hanno cambiato il mondo.
Inserito nella collana di pubblicazioni di ambito musicale curata da Ezio Guaitamacchi, il volume si apre con una foto che è forse il simbolo del nostro immaginario hippie: due giovani, raccolti in una coperta, che sorridono con un fiorellino nelle mani.
Nella pagina accanto, una persona addormentata sul tettino di un vecchio pullman, se solo stanca o strafatta decidetelo voi.
Innanzitutto preparatevi a una lettura davvero divertente e che potrete fare anche a mo’ di “zapping”, dati i numerosi trafiletti e approfondimenti. Il sommario già mostra una densità di temi e argomenti notevole.
Si lo so che state fremendo per quanto detto nel titolo: c’è una prefazione di Martin Scorsese, il famoso regista nonché appassionatissimo di musica rock. Uno che a quei tempi c’era e come dire, non si è fatto mancar nulla!
Scordatevi però che vi racconti cosa dice nella prefazione, vi dirò solo che inizia così “Il mio punto di vista su Woodstock è… limitato“… e poi va avanti per 4 colonnone dense di scritti.
Sì, il punto di vista è limitato, ma solo perché lui, che al festival era presente, era sulla destra del palco dietro una pila di amplificatori…
Segue, quindi, una prima parte del libro che, giustamente, fa una parentesi storica del periodo. Perché bisogna evitare (dannazione!) di giudicare qualcosa di ieri con gli occhi di oggi. Per non cascare da una parte nella visione bendata tutta cuore e amore di chi resta confinato nelle sue fantasie adolescenziali, ma neanche finire nel mentecattismo di chi liquida il tutto nel “vabbé erano solo una banda di drogati“.
La musica è cultura. La storia è cultura. La musica ha scritto la storia. Bene, quindi, conoscerla!
Ho personalmente apprezzato moltissimo anche l’accenno (si fa per dire, c’è un buon approfondimento) ad altre manifestazioni e in particolare al Festival di Newport. Dubito che se lo chiedete a 10 persone, vi sappiano rispondere qualcosa in proposito.
Eppure, a Newport sono confluiti i più grandi artisti Jazz di ogni tempo, ma non solo, anche Bob Dylan che proprio a Newport scatenò il putiferio presentandosi in elettrico per la prima volta (coi fan divisi tra il fare harakiri e il volerlo spellare vivo e mettere sotto sale…).
D’obbligo anche la digressione su Monterey, dove Hendrix dette fuoco alla sua Stratocaster e bruciò anche ogni possibilità di ricordo all’esibizione degli Who, un po’ amareggiati dalla cosa (eufemismo…).
Insomma, bene conoscere qual era la realtà dei grandi festival americani, prima di Woodstock.
Inizia quindi il racconto dell’impresa. Quella di Michael Lang (al centro nella foto sopra), che si era già fatto le ossa – e affinato la furbizia – col Miami Pop Festival del ’68.
Coadiuvato da tanta caparbietà, una buona dose di resilienza e qualche fondo economico razzolato in ogni dove, comprese eredità paterne, lo staff iniziò a muoversi in quella che fino ad allora era solamente una terra di campagna come tante. Questo libro va abbastanza a fondo di tutta l’organizzazione, seguendo passo passo le varie difficoltà, comprese le trattative con chi si spaventava di un numero compreso tra le 50 e le 100mila persone. Sarebbero poi state più di cinquecentomila…
Una chicca assoluta di questo libro, per fortuna in formato assolutamente non tascabile ma anzi bello grande e generoso di particolari, sono le foto. Belle, ben stampate, ben scelte, ben impaginate.
Alcune non le avevo mai viste, neanche alla mostra sulla controcultura che avevo incrociato lo scorso anno al Met di NY (per quanto non fosse concentrata principalmente su Woodstock).
E poi, a pagina 70, saliamo sul palco.
È il 15 agosto, sono le cinque del pomeriggio. Sale Richie Havens, con la sua sola chitarra acustica, ripreso da un paio di microfoni. Il palco, con gli occhi di oggi, è quanto di più abbozzato si possa immaginare, non voglio pensare a quante norme di sicurezza potessero essere violate.
Per quanto mi riguarda, quella di Havens è una delle immagini principali che associo ai miei ricordi, naturalmente derivati dal famoso film uscito dopo il festival, che è stato il principale promotore del mito di Woodstock. Questo “omone” dalla pelle nera e dall’eccezionale carisma, che suona la sua chitarra con un’energia inarrivabile, tanto che pensi che prima o poi quella poveretta crollerà sotto la furia della sua mano destra.
E ora, grazie al libro, ho anche capito perché durante l’introduzione di “Freedom” temporeggiò così a lungo, semplicemente non sapeva decidere cosa avrebbe cantato dopo. Doveva fare una mezz’ora, ma una volta finito il set gli dissero di tornare sul palco e fare ancora 4 pezzi. Poi, finiti quelli, “ancora altri 3“.
Ecco, forse fu questo Woodstock, una libertà pressoché totale.
La si può vedere da diversi punti di vista: la libertà che fa suonare senza fine un musicista che sta facendo scintille, quella che ti fa assistere a una rock opera in notturna, a tutto volume.
Oppure la si può vedere come la causa di un gran casino, perché diciamolo pure, fu anche questo. Una serie di problematiche tecniche e organizzative che iniziarono ad accavallarsi dal primo giorno e rimasero letteralmente impantanate nel fango i giorni successivi.
A mio parere in questo libro troverete una storia ben raccontata, con immagini che sono una gioia per gli occhi. Se poi avete anche a casa il famoso disco (Parte I e Parte II) in cui è raccolto tutto o quasi il Festival, avete fatto bingo. Ascoltatelo, mentre leggete o sfogliate semplicemente le foto.
Per quanto abbiano provato (malamente) o provino ancora (con notevoli defaillance) a rimetterlo in piedi, questo rimane l’unico, vero, Festival di Woodstock che merita di essere ricordato e raccontato alle nuove generazioni.
p.s. nota “venale” personale: ci si lamenta a volte anche del costo dei libri. Questo è un bel librone di quasi 300 pagine, stampate di qualità e che racchiude tanta sostanza, non solo foto e qualche riga banale di testo. E costa meno di 30 euro. Fate vobis…
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